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Rachele Somaschini, pilota con una compagna bastarda: la fibrosi

Ha passione per i motori l'ha ereditata da suo padre e oggi corre per sé, la sua famiglia e per chi come lei combatte la malattia

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Rachele Somaschini, pilota con una compagna bastarda: la fibrosi Fonte: Instagram

Rachele Somaschini ha una voce limpida, pulita, che suona cadenzando ogni parola come se fosse una canzone, tanto è musicale. Quando la raggiungiamo al telefono, si sta preparando ai test che anticipano la sua partecipazione al Rally di Montecarlo. Un appuntamento che le impone una disciplina e una organizzazione puntuale. E non solo o esclusivamente perché, da pilota, nutre estrema consapevolezza dell’importanza del pre, in vista di un appuntamento così rilevante. La passione della pilota di Cusano Milanino per i motori è assoluta, ma non è stata capita, nel suo ambiente. Ma non è certo il timore di subire discriminazioni di genere ad averla condizionata, né fermata.

Rachele è affetta dalla nascita da fibrosi cistica, quella che definisce la sua compagna di vita, un po’ bastarda. Ogni trasferta, ogni viaggio, ogni gara impone lo stesso rituale, la medesima maniacale attenzione a quello che dovrà accompagnarla in valigia. E non solo. Rachele sa essere una donna del suo tempo, tra social, motori, lavoro e studio. Una venticinquenne che affronta, conoscendola, la paura e proprio perché è lì – chiusa in una categoria di pensiero – non la teme più.

Rachele, partiamo dai social che cura con estrema attenzione ad ogni sfaccettatura della sua vita. Anche per quanto riguarda gli aspetti meno noti. Si legge su Instagram: “Come fai a viaggiare sempre nonostante la malattia e tutte le terapie da fare? “. Ecco, come ha imparato ad organizzarsi e che ruolo hanno ricoperto i suoi genitori?
Molto spesso mi sorprendo a ricordare o a ripensare al passato, spesso per via proprio di qualche aneddoto “saltato fuori” dai miei genitori, ecco è proprio in quei momenti che trovo l’ispirazione a quel tipo di post. Ricordo bene il periodo della scuola e i tanti “no” in occasione di gite scolastiche o ai pigiama party dalle amiche. Ho capito solo più avanti che i miei genitori furono obbligati dalle circostanze a non concedermi determinate cose. Infatti ho compreso che difficilmente avrei potuto gestire non solo le terapie ma anche tutto ciò che gravita intorno o meglio la sterilizzazione dei presidi, l’assunzione dei farmaci, perché se è vero che ho cominciato a pochi mesi a curarmi, ci sono voluti anni per riuscire a destreggiarmi con tutto ciò che quotidianamente impone la patologia. Ho capito che i miei genitori si sono trovati ad affrontare una situazione complessa oltre che sofferta e hanno aspettato con pazienza che io avessi l’età per prendere coscienza e consapevolezza, aiutandomi in tutto e soprattutto cercando di farmi avere un’infanzia e un adolescenza simile a quella dei miei coetanei, il più normale possibile.

Come hanno appreso i suoi genitori che è affetta da fibrosi cistica? E come le è stato spiegato, al momento in cui è stato posta o illustrata la malattia?
Dal 1992 in Italia si è introdotto obbligatoriamente lo screening neonatale per individuare precocemente alcune malattie genetiche gravi tra cui anche la fibrosi cistica, e così, risultata positiva alla nascita ho avuto la diagnosi certa un mese dopo con il test del sudore al Centro di riferimento Regionale FC a cui i miei genitori erano stati indirizzati per gli accertamenti. In realtà, nonostante io abbia cominciato la mia frequentazione dell’ospedale a pochi mesi iniziando contestualmente le cure, i miei genitori mi raccontano che le domande sono arrivate molto più avanti. Ho il ricordo indelebile di una terribile giornata a scuola con un’insegnante di scienze che leggendo un capitolo dedicato alle malattie genetiche gravi compresa la fibrosi cistica, a sua insaputa mi mise davanti ad alla cruda realtà legata all’aspettativa di vita di allora leggendo: “I bambini con questa patologia non raggiungono l’età adulta”. Quel giorno purtroppo toccò a mia madre darmi delle risposte e nonostante le angoscianti conferme, riuscì comunque a trovare il modo di farmele recepire con serenità, perché se è vero che la patologia è tra le peggiori, è ancora oggi impossibile prevederne la severità dell’evoluzione, ritengo quindi che quello fu il momento in cui presi coscienza della mia condizione intorno ai 12 anni, e da allora mi è stato spiegato tutto man mano che crescevo.

Ha mai accusato la convivenza con la fibrosi cistica come limitativa rispetto alla grande passione per i motori? E quando ha compreso che poteva trasformarsi in una professione?
Inizialmente ho pensato che potesse essere una condizione limitativa, infatti non mi sono affacciata al motorsport da ragazzina come fanno in molti partendo dai kart, sono approdata direttamente in pista in una vera gara, oltretutto disputata nel Tempio della velocità come viene spesso chiamato l’Autodromo di Monza. Devo dire che è stato un caso fortuito, perché nonostante la grande passione di mio Padre, non si era mai sentito di indirizzarmi spontaneamente proprio nel mondo dei motori. Da quella prima esperienza positiva, a 19 anni, ho provato con altre gare, alzando l’asticella sempre più in su, quasi a voler testare la mia resistenza fisica. Poi ho affiancato un’attività fisica che mi abituasse alla fatica, al caldo, nostro peggior nemico, sono passata da una specialità all’altra alternando le gare in pista alle cronoscalate ossia gare di velocità in salita per poi approdare finalmente ai rally.
In effetti ho sempre trovato affascinante quel mondo, ma mai avrei pensato di riuscire a resistere tutte quelle ore e per tanti chilometri su un’auto da competizione, spesso con il rischio di disidratazione (perché la fibrosi cistica provoca una sudorazione concentrata in sodio 4 o 5 volte quella delle persone sane). Non solo sono riuscita ad avvicinarmi ai rally ma ho partecipato per due anni ad uno dei campionati più difficili ed estenuanti, sono riuscita ad arrivare a disputare 12/15 gare in una sola stagione senza fermarmi mai. Non dico sia stato facile, è necessaria un’organizzazione straordinaria e non avrei certo potuto fare tutto da sola, ho uno stuolo di persone che mi amano e che mi supportano in tutto non solo in gara ma soprattutto nella vita. Mi sono resa conto ad un certo punto che la mia esistenza è legata al mondo dei motori e ho fatto il possibile per renderlo una professione in gara e fuori.

Come ha vissuto sua madre questa scelta?
Male, male, soprattutto all’inizio, quando io e mio Padre partecipammo a quella prima gara storica e io entrai in pista appena presa la patente, mia madre ha rischiato l’infarto. Nonostante ancora oggi abbia una paura terrificante e pensi che io sia una pazza ad assumermi ulteriori rischi, difficilmente non è presente alle competizioni. Segue il lato Charity del progetto #CorrerePerUnRespiro e le mie terapie, non mi guarda correre e rimane in ansia fino alla fine ma c’è sempre.

E come si è sentita lei, in un contesto come quello del mondo dei motori ancora profondamente segnato dalla differenza di genere?
Non mi è mai pesato fino a quando non ci sono state le prime vere e proprie “discriminazioni”. All’inizio sembra tutto rose e fiori perché una donna nel mondo dei motori desta sempre tante attenzioni e complimenti, le problematiche iniziano a sorgere nel momento in cui inizi ad andare più forte dei tuoi avversari ed è in questa occasione che mi è capitato di entrare in contatto con piloti che hanno cercato di screditarmi o di infangarmi per non aver accettato la sconfitta. Spesso le scuse erano allusioni al fatto che io avessi la macchina “fuori norma” o che vincessi perché “più leggera” in quanto donna. Altre volte invece ho fortunatamente avuto avversari molto sportivi davvero contenti di quello che ero riuscita ad ottenere con grande fatica.

Che programma segue, in preparazione alle gare e considerando anche la sua attività di istruttrice di guida sicura?
Sono costantemente in allenamento, corro tutto il giorno tra un appuntamento e l’altro ed ho un personal trainer ed una fisioterapista che mi seguono sempre, questo è indispensabile non solo per prepararmi alle gare ma anche e soprattutto per liberare i polmoni da quel muco denso che si deposita e crea le infezioni ed è la problematica più importante della patologia, infatti è proprio il danno polmonare a portare all’insufficienza respiratoria e a determinare la qualità e l’aspettativa della nostra vita.
Mentre per quanto concerne il mio ruolo di Istruttore di Guida Sicura, ottenuto solo a seguito di una lunga abilitazione, mi impone di tenermi aggiornata proprio in materia di sicurezza stradale e formazione della didattica.

Com’è oggi la sua giornata, nel quotidiano? Ci può descrivere nel dettaglio che cosa fa per conciliare motori, terapie e obiettivi personali?
Praticamente faccio quotidianamente dei miracoli, scherzi a parte, cerco davvero di conciliare tutto, anche se servirebbero il doppio delle ore della giornata. Come ho detto, mi sveglio prestissimo per le cure, corro da una parte all’altra programmando tutto con precisione, spesso vado e torno in giornata facendo anche 400/500 km, arrivo alla sera e seppur stremata dormo solo dopo aver eseguito la fisioterapia respiratoria. Il problema sorge purtroppo quando ci sono delle riacutizzazioni per le quali è necessaria una maggiore aderenza alle cure in termini di tempo perché le sedute di fisioterapia respiratoria devono durare ancora più ore del solito, non parliamo poi se c’è la necessità di un ricovero che purtroppo deve necessariamente essere di almeno 15 giorni per le terapie in vena.

Spesso ha dedicato foto e riflessioni ai legami più intensi legati all’amicizia, a Chiara Lombardi, alla figure più decisive nel suo percorso di vita. Per chi vuole riservare delle parole particolari?
Chiara è una grande amica, oltre che compagna di avventure. Essere una navigatrice implica un grande dispendio di tempo ed energie da dedicare ai rally e solo chi è davvero appassionato trova le forze per farlo, soprattutto a certi livelli. Correndo insieme oltre 10 gare all’anno ho passato quasi più tempo con lei che con la mia famiglia e questo aiuta ad instaurare un bel rapporto, soprattutto quando si è a stretto contatto in momenti di tensione ed agonismo.
Oltre a lei, ho molti amici d’infanzia che mi vogliono bene e sono sempre al mio fianco nonostante i miei numerosi impegni che mi distolgono dal poter curare le amicizie. Sicuramente chi mi è vicino conosce i sacrifici che ho fatto per riuscire ad essere dove sono oggi e per questo motivo trovano sempre il tempo di vedermi ed essermi vicini nei momenti che ho a disposizione. Ho tanti amici che supportano anche la mia attività di volontaria della Fondazione e spesso si mettono a disposizione per le raccolte fondi ed i banchetti di sensibilizzazione e per questo li vorrei ringraziare tutti per essermi sempre vicini anche in queste occasioni per me importanti. Allo stesso modo ringrazio quel santo uomo che mi sta a fianco sopportandomi e supportandomi in ogni mia idea e progetto sportivo.

Della fibrosi cistica si scrive e si parla quando casi di attualità o la ricerca pongono all’attenzione dell’opinione pubblica la malattia che, nella società contemporanea, tende ad essere sempre nascosta. Invece lei ha realizzato “con” la fibrosi cistica e non “nonostante”. E continua a impegnarsi con il progetto #CorrerePerUnRespiro. Perché si tende a celare la diversità, che cosa non si vuole vedere della malattia e anche della fibrosi cistica, a suo avviso? 
E’ vero purtroppo, la fibrosi cistica pur essendo una malattia diffusa è ancora oggi poco conosciuta e se ne sente parlare ancora troppo poco. E’ il motivo predominante che mi ha spinto a coniugare la mia passione per i motori a questo. Ho pensato davvero che una figura femminile in un mondo maschile susciti maggior interesse, negli anni ho avuto conferma di questo e i risultati sono stati entusiasmanti. Ho parlato della patologia in ogni ambito, sono stata invitata a relazionare a dare testimonianza, ho raccolto cifre importanti da destinare alla ricerca e questo aspetto mi ha reso ancora più felice delle scelte che ho fatto. E’ anche vero che ultimamente qualcosa si sta muovendo, sono stati trovati nuovi farmaci che agiscono sul difetto genetico e a questo si è dato un notevole riscontro mediatico che fino ad oggi si era dedicato solo alle cattive notizie della prematura scomparsa di qualcuno di noi, trovo terribile che faccia più scalpore la morte che la vita. Il problema principale della patologia è che è nascosta, non suscita scalpore fino a quando non si è obbligati ad uscire con l’ossigeno, spesso ci sentiamo a disagio perché capita di dover tossire tra la gente che ti guarda come un appestato, senza però che ci si chieda cosa ci sia dietro. E’ capitato di incontrare gente che ignora talmente tanto che si è chiesta se le mascherine che indossiamo per proteggerci celino una malattia contagiosa. Non dimentichiamoci che in Italia 1 persona ogni 25 è portatore sano del gene mutato e che pertanto non è poi così improbabile imbattersi nella fibrosi cistica, eppure la gente continua a pensare che non sia così. Per contro, sono felice che ultimamente si stia dando spazio alle notizie positive, si parla di quanto stia volando la ricerca grazie al sostegno di molte persone.

Si, ammetto di dire spesso nel parlare che sono riuscita a realizzare desideri e sogni CON la fibrosi cistica e non NONOSTANTE, perché avendoci a che fare da sempre, la ritengo una compagna di vita, scomoda, un po’ bastarda ma sempre con me, dopotutto è una presenza costante, non c’è nulla che io possa fare senza… quindi ho deciso di farle provare in auto con me un po’ di quello che qualche volta ha fatto venire a me… PAURA!

Ha una proposta specifica relativamente alla lotta contro la fibrosi che intende promuovere, prestandosi personalmente?
Non ho nulla di nuovo da proporre, sono Testimonial della Fondazione Ricerca Fibrosi Cistica da diversi anni, sono orgogliosa di prestare la mia immagine, di metterci la faccia quando chiedo aiuto e sostegno, credo fermamente che rappresenti una parte importantissima della mia esistenza perchè l’obiettivo comune ha un’importanza fondamentale. Sono ormai certa che ci stiamo avvicinando ad una cura che oggi ancora non c’è per tutti e sono felice che per questo i neonati di oggi probabilmente non avranno un ricordo di una sofferenza che invece ha colpito duramente tanti della mia generazione e ancora più fortemente chi prima di me ha combattuto con tutte le forze e ha comunque perso. Le nostre famiglie sono in trincea come volontari da molti anni, nonostante il dolore, ed è grazie ai volontari e alla sensibilità di tante persone che si è riusciti a sostenere il lavoro della Fondazione che finanzia la ricerca e che ha fatto si che l’aspettativa di vita si attesti oggi intorno ai 40 anni, esattamente il doppio di quando sono nata io mentre prima ancora era unicamente una malattia pediatrica. E per questo chiedo ancora un piccolo sforzo e di non abbandonare la via delle donazioni in questo momento cruciale, i modi per sostenerci sono tanti.

Pensa mai a un “dopo” rispetto alla sua esperienza da pilota di rally? Ha un progetto su cui intende concentrarsi?
Non faccio mai progetti a lunghissimo termine per ovvi motivi, tuttavia il mio sogno più grande è quello di diventare mamma, anche se per noi potrebbe significare dover interrompere alcune cure invasive mettendo a rischio la nostra salute. E’ un desiderio molto forte che ho da quando ero ancora 16 enne ma che tuttavia mi lascia sempre un po’ di paura e timore dentro, per questo motivo mi ritrovo sempre a rimandare l’anno sabbatico dalle competizioni ed il poter dedicare a me stessa e il sogno di avere una famiglia.

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