Intervista esclusiva a Domenico Pozzovivo: "Ho rischiato la vita. Sulla sicurezza più battute d'arresto che passi in avanti"

Il campione di ciclismo, Domenico Pozzovivo, ripercorre una carriera unica e ci confida l'obiettivo per la prossima stagione. I record, le ambizioni e i drammatici incidenti che lo portano a chiedere maggiore sicurezza sulle strade

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Elisabetta D'Onofrio

Giornalista e content creator

Giornalista professionista dal 2007, scrive per curiosità personale e necessità: soprattutto di calcio, di sport e dei suoi protagonisti, concedendosi innocenti evasioni nell'ambito della creazione di format. Un tempo ala destra, oggi si sente a suo agio nel ruolo di libero. Cura una classifica riservata dei migliori 5 calciatori di sempre.

Per quanti seguono il ciclismo, Domenico Pozzovivo è più di un professionista capace di affiancarsi a Vincenzo Nibali, lo Squalo di Messina, e ai campioni che hanno dominato e segnano ben tre generazioni di corridori. Questo ragazzo classe 1982 ha saputo emozionare gli appassionati con le sue imprese personali, da autentico scalatore, soprattutto durante le tappe di montagna del Giro, a cui ha regalato dei primati notevoli e che ambisce a superare. Perché ritiene che non sia finita ancora, anzi.

Domenico ha legato al suo nome, e al ciclismo, anche quanti non hanno mai nutrito quella passione per uno sport che sa aggregare grazie a un movimento che nasce ed è nutrito dal basso. Perché nella carriera, e nella storia personale, di Pozzovivo la determinazione anche contro le avversità incredibili che ha dovuto incontrare sono state tante, forse troppe per chiunque altro.

Gli incidenti, al pari delle conseguenze, hanno condizionato il suo percorso da pro, da quando si è allontanato dalla Basilica per realizzare un obiettivo, un sogno condizionato anche oggi dagli infortuni. Con lui, da professionista e da testimonial di una terra unica come la Basilicata, ripercorriamo in esclusiva per Virgilio Sport quelle fasi che hanno deciso l’indirizzo del suo percorso ciclistico e che lo hanno condotto a soffermarsi sulla sicurezza, autentica emergenza sulle nostre strade.

Forse per raccontare un frammento della sua carriera si dovrebbe partire dalla fine, dagli ultimi risultati: lei al Giro 2022 ha chiuso all’ottavo posto in classifica generale, divenendo, all’età di 39 anni, il corridore più anziano a chiudere la corsa a tappe nella top 10 dai tempi di Giovanni Rossignoli. Si sente appagato o avverte ancora quell’urgenza di esserci, considerando che cosa rappresenta per i corridori italiani il Giro?

Raggiungere questa top 10, l’anno scorso, mi ha dato ovviamente grandissimo orgoglio e soddisfazione perché è l’obiettivo principale che ho avuto in testa dopo l’incidente del 2019. Però, devo dire, che il termine appagamento si associa poco alla mia personalità. Dopo ogni traguardo raggiunto, sono sempre pronto a rimettermi in gioco e a cercarne di successivi: nel mio caso è partecipare a un altro Giro. E di riscattare la sfortuna di quest’anno, quando ho abbandonato per il Covid, che mi ha costretto a ritirarmi troppo presto. Poi aggiungere un altro Giro alla mia collezione rappresenterebbe il raggiungimento del record di partecipazioni, consentendomi di appaiarmi a Panizza.

La sua carriera è incominciata, forse, mettendo da parte altri talenti: aveva dimostrato facilità negli studi diplomandosi con il massimo dei voti. Perché ha scelto il ciclismo allora, trasferendosi in Piemonte e mettendo in secondo piano il percorso universitario?

Sì, quella di trasferirmi in Piemonte lasciando la priorità al ciclismo, in particolare quando sono diventato professionista rispetto agli studi universitari, è stata una scelta non facile. Perché lo studio è sempre stata una passione allo stesso livello del ciclismo, in ogni caso ho cercato di non accantonarla del tutto continuando gli studi in Economia Aziendale

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e adesso mi sto avvicinando alla seconda laurea, in Scienze Motorie. Ovviamente sarebbe stata un’altra carriera accademica, quella senza la scelta quasi totalizzante del ciclismo.

Dopo il primo, importante infortunio che riportò, giovanissimo, durante il Giro del Trentino che cosa credeva potesse significare questo importante stop? Come ha vissuto la caduta e la battuta d’arresto che ne seguì?

L’infortunio al Giro del Trentino è stata una sliding door della mia carriera, perché era una frattura importante all’omero destro capitata quando ero al secondo anno da professionista. Quell’infortunio mi aveva costretto a saltare il mio secondo Giro d’Italia e, devo ammettere, mi ha costretto a pensare anche all’eventualità di abbandonare il ciclismo perché i tempi di recupero erano lunghi e non avevo esperienza di infortuni di quel genere, non sapevo come sarei tornato. Ma a posteriori è stata importante della mia crescita: da lì ho imparato a gestire la fase della convalescenza, la pazienza che ci vuole e la soddisfazione che si ha, quando si recuperano appieno le capacità fisiche. Anche gli infortuni seguiti, il fatto che sia riuscito a superarli, è stato proprio a causa di quel primo: è stato come una scuola.

Potrebbe definire oggi che cosa l’ha sostenuto quando si riprese e riuscì, primo ciclista lucano, a correre il Giro e il Tour de France? Che cosa avverte un corridore in quei mesi di attesa e di riabilitazione?

Quello che mi ha sostenuto nei periodi difficili, dopo gli infortuni, è stata la motivazione di dimostrare ancora quello che avevo da dare dopo un anno e qualche mese di carriera. Avevo il sogno del Giro, di indossare un giorno la Maglia Rosa, di partecipare al Tour, le grandi classiche come la Bastoni-Liegi e la Lombardia. In più, nel periodo di riabilitazione, guardare i miei colleghi che fino al mese prima ero lì a sfidare, al Giro del Trentino. Gareggiare al Giro mi ha tenuto alta la motivazione per dimostrare quello che potevo raggiungere.

Dopo questo avvio da pro, ha inanellato diversi successi che la proiettano al vertice del ciclismo italiano: il Giro del Trentino 2012, una tappa al Giro 2012, per fare alcuni esempi. Purtroppo la sua carriera è stata segnata anche da incidenti e cadute. C’è un secondo impressionante incidente al Giro edizione 2015, durante la tappa che portava da Rapallo a Sestri. Trasportato in elicottero al pronto soccorso del San Martino di Genova, le danno 27 punti di sutura al volto. Rimase in terapia semi-intensiva per un giorno. Successivamente c’è stato quello del 12 agosto 2019, terribile, durante un allenamento per le strade del cosentino in preparazione alla Vuelta a España. Riportò per quell’impatto fratture a un braccio in più parti, una gamba, una mano e diverse costole, oltre a pneumotorace e versamento epatico. In tutto ha subito otto interventi chirurgici per scongiurare l’ipotesi di protesi all’arto. Che cosa si sente di dire, per la sua storia, su queste tremende esperienze, vissute in bicicletta, sulla sicurezza?

Le esperienze che mi hai evocato, nella loro drammaticità, sono comunque molto diverse. Nel primo caso si tratta di un incidente in corsa ovviamente per la sicurezza si cerca di fare il massimo per via dell’errore umano o della fatalità e in quella circostanza avendo una amnesia della parte che precede e anche immediatamente successiva a livello di impatto psicologico è stata molto meno importante rispetto invece a quello del 2019. Quando fui investito da un’auto che procedeva nella corsia opposta invadendo la mia carreggiata. Lì ho avuto pochi secondi per riflettere che stava per accadere qualcosa di gravissimo. E non potevo farci nulla. Nel primo caso la ripresa è stata molto rapida ovviamente i segni sul fisico c’erano. perché avevo subito delle ferite importanti al volto, ma fortunatamente è stato fatto un lavoro di altissimo livello da rendere le cicatrici sul volto quasi invisibili. La ripresa è stata veloce e nello stesso anno ho concluso anche appena fuori dalla top 10 la Vuelta, finendo undicesimo. Il secondo incidente è stato davvero devastante, ho rischiato la vita. E’ stato un lunghissimo percorso di riabilitazione, di interventi, uno dietro all’altro, per cercare di non ricorrere a una protesi al gomito che avrebbe precluso la carriera da professionista o anche una semplice uscita in bici. L’aver superato quell’incidente veramente mi ha dato più contezza delle capacità dell’uomo di riuscire a reagire a situazioni complicate, mi ha dato – penso – ancora più forza nell’affrontare le sfide e alle conseguenze che mi porto addosso di quell’incidente. Sulla sicurezza ci sono più battute d’arresto che passi in avanti rispetto al 2019, è un problema che per chi pratica il ciclismo a livello agonistico che per diletto non c’è una cultura del rispetto, nonostante in Costituzione sia stato introdotto il diritto allo sport. Da tanti non è riconosciuto, perché non c’è una formazione culturale in quel senso. Bisogna fare tanti passi in avanti, partendo dall’educazione alle giovani generazioni, al rispetto reciproco sulla strada nonché migliorare le infrastrutture. Soprattutto al Sud sono una causa aggiuntiva di rischio.

Che obiettivi si pone per questa stagione e anche per la sua terra, che ha sempre rappresentato con orgoglio nel ciclismo?

L’obiettivo della prossima stagione è riuscire a correrla, perché attualmente non ho un contratto. E’ stata una stagione sfortunata, partendo dal fatto di aver trovato squadra molto tardi e aver corso solo una trentina di gare quando di solito ne corro il triplo. E ho avuto poco modo di esprimere le mie reali potenzialità e soprattutto il Giro mi ha negato la parte più importante della stagione. E poi c’è stato un incidente, a fine luglio, con pneumotorace e da lì tutta la parte finale di stagione è stata condizionata. Spero di riuscire a trovare posto nel ciclismo e a partecipare al Giro dell’anno prossimo, raggiungere la top 10 e il record di partecipazioni. Fortunatamente la Basilicata adesso può contare su Alessandro Verre, che ha già partecipato al Giro dell’anno scorso. Mi piacerebbe ancora, per il Giro dell’anno prossimo, fossimo entrambi ai nastri di partenza. Renderemo fieri i nostri corregionali con due lucani alla partenza.

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