Il nome Beniamino in realtà valeva solo per almanacchi e addetti ai lavori, per gli amici Vignola è sempre stato Franco. «È il mio secondo nome, anche se non ce l’ho sui documenti. Ma fin da piccolo mi hanno sempre chiamato così. E Franco sono anche per Nicoletta, mia moglie e per i ragazzi che lavorano con me in azienda». Così disse al Guerin Sportivo. L’azienda è la Vetrauto, fondata dal papà di Nicoletta oltre mezzo secolo fa, di cui lui oggi è amministratore insieme al cognato.
IL PRESENTE – «Quando ho smesso con il pallone, ho colto l’opportunità che mi offriva mio suocero. Operiamo nel campo dell’after–market. Ricambi e riparazioni dei vetri delle vetture. Ci sono entrato in punta di piedi e grazie agli insegnamenti di chi mi ha preceduto ho imparato il mestiere. Nel lavoro ho messo un po’ delle mie esperienze sportive: il gioco di squadra, l’importanza del gruppo. Ci sono anche le multe simboliche per chi arriva tardi o le brioches da portare al sabato per chi fa qualche danno». Di multe lui da giocatore però non le prendeva. Partito dalla sua città natale, Verona (ma tifava Milan “tenevo anche per il Verona. Tra l’altro ero in gradinata quel 20 maggio 1973, il giorno del famoso 5–3, con la grande delusione del popolo rossonero per lo scudetto della stella sfuggito all’ultima giornata. Ci rimasi male anch’io, ma fui contento per l’Hellas”), fu all’Avellino che si impose questo centrocampista dai piedi delicati, dotato di una classe limpidissima e di un tiro preciso e potente. In Irpinia vive il dramma del terremoto dell’80 («23 novembre 1980. A me andò bene, la palazzina dove vivevo tremò e basta. Ma per il resto fu un dramma incredibile. Il Partenio, fu trasformato in una tendopoli. Noi riuscimmo a dare alla gente un sorriso con le nostre prestazioni»).
IL BIVIO – Lo notano tutti ma nel 1983–84 lo prende la Juve. Che supera la Fiorentina: «Dopo i tre anni ad Avellino, il mio nome è gettonato e il presidente vuole fare giustamente cassa. Sono a Verona, a casa. Mi chiama la società, mi dice che è tutto fatto con la Fiorentina. “Quando vieni giù fermati a Firenze per parlare con il direttore generale della società Allodi e con l’allenatore De Sisti”. Ci incontriamo, parliamo, tutto bene. Non c’è nulla di firmato, ma mi sento un giocatore della Fiorentina. Riprendo la macchina e arrivo ad Avellino. Mi vedo con il presidente Sibilia, gli riferisco tutto e lui mi fa: “Anche noi abbiamo chiuso. Ma con la Juventus. Questo è il numero di Boniperti, aspetta una tua telefonata”. Ho chiamato. “Sei contento di venire alla Juve?” Gli rispondo di sì, ma che non me l’aspettavo. Per la prima volta potevo competere per lo scudetto e le coppe, invece che giocare per la salvezza».
LA COPPA – E la coppa la vince, quella delle Coppe. Proprio con un suo gol (più assist per il gol di Boniek) come ricordò a La Repubblica: «Juve-Porto, finale di Coppa delle Coppe a Basilea, 16 maggio 1984: una squadra di mostri più uno normale, io. A volte rivedo il filmato, sento la voce di Nando Martellini che dice il mio nome e non ci credo: mi trovavo lì. Io giocavo poco, quasi sempre per sostituire Platini, però poi ero diventato titolare al posto di Penzo. Nella mia carriera alla Juve sono stato bravo perché ho segnato i gol giusti, quella doppietta in rimonta all’Udinese, il rigore alla Fiorentina al 90′ la volta che Platini aveva la febbre, lui che accidenti non si ammalava mai. Nel cassetto conservo la maglia di quel giorno, bianconera e col 10 perché allora i numeri non erano personali. Bellissima, di lana con lo scudetto e le stelle gialle cuciti a mano in rilievo, ogni tanto vado a guardarmela. Quando pioveva, pesavamo due chili in più».
LUI E TACCONI – Grande amico di Tacconi («Sì, da sempre. E i sabato notte erano un tormento. Si parlava, ci scambiavamo emozioni. Mi fumava addosso non so quante sigarette. E ogni tanto si placava con qualche “amaro”: Non ti dico il periodo in cui è stato fuori squadra. Una lotta. Era fatto così. Era il compagno più veloce a fare la doccia. Così poi usciva e andava incontro ai giornalisti. Sai quante volte gli ho detto, Stefano, aspetta, stai buono qui nello spogliatoio. Niente») ma poi nell’estate del 1985 lascia la Juve e va a Verona.
LA SCELTA – «Alla Juventus mi sentivo un po’ chiuso. Nel mio ruolo poi c’era Di Gennaro e anch’io, onestamente, non ho dato il massimo. Peccato perché pensavo che l’aria di casa mi avrebbe dato una spinta in più. Altro errore. Non ritornerei alla Juventus nel 1986. Non c’era più Trapattoni, ma mister Marchesi. Platini era al suo ultimo anno, ma aveva già staccato. Anch’io avevo perso un po’ di magia. La fiamma si era spenta. E nell’autunno 1988 eccomi a Empoli in B, per poi finire in C1 la stagione seguente. Poi smetto. Per Nicoletta acquistiamo una farmacia che è poi anche il presente delle nostre figlie Chiara e Giulia. Ed io metto i ricordi in bacheca e accetto la proposta di mio suocero di lavorare per la sua azienda».
MAGLIA GIALLA – In bacheca c’è anche altro: «La maglia gialla col numero 7 della Juve stava anche lei nel cassetto, poi l’ho regalata al museo della Juve e quando vado a Torino faccio sempre un salto e me la guardo. Ci sono persone che scattano una foto davanti al cimelio e poi me la mandano, e io sono felice. ». Il calcio è solo il passato: «Molti miei colleghi di allora lavorano in tv, ma io non ho tempo per prepararmi bene e se non ti prepari fai brutte figure, non sai cosa dire. A pallone gioco poco, dieci minuti ogni tanto, venti al massimo, poi penso: e se mi faccio male? Quanto ci metto a recuperare? Qualche volta gli amici mi chiamano e io chiedo: si gioca sull’erba o sul sintetico? Perché il campo sintetico non profuma e questo per me è essenziale, l’odore di un prato quando ci corri sopra, a calcetto non gioco perché non sa di niente».