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Diego Lopez e i viaggi sudamericani: "Stress, perdi 4 chili"

L'ex tecnico di Cagliari, Bologna e Brescia ricorda la propria esperienza: "A 30 anni ho detto basta, non reggevo. E per un allenatore è un casino".

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Diego Lopez e i viaggi sudamericani: "Stress, perdi 4 chili" Fonte: Getty Images

Ancora una volta, tutti si lamentano. Ma nulla, almeno a breve termine, sembra destinato a cambiare. I calciatori sudamericani fanno le valigie, giocano tre volte in una settimana, tornano a poche ore dalla successiva partita di campionato. E via così, in loop. È già accaduto un mese fa, sta accadendo nuovamente in questi giorni.

Diego Lopez, l’ex allenatore di Cagliari, Bologna e Brescia, questa situazione se la ricorda bene. Ci è passato anche lui, ai tempi in cui giocava nella retroguardia dei sardi e veniva convocato con regolarità dall’Uruguay. Meglio non ricordarglielo. Perché, oltre all’orgoglio di una chiamata così prestigiosa, c’è anche uno stress difficilmente sopportabile, come lo stesso Lopez racconta in un’intervista al ‘Corriere dello Sport’.  “Quando sei giovane lo fai, hai voglia, e per un uruguagio significa tanto: lasci ogni cosa per andare a vestire la maglia della tua nazionale. Ma con gli anni la vedi in un altro modo. Dici: mi paga il club. Quando è arrivato Tabarez, io ho fatto una scelta. Avevo poco più di trent’anni e mi sono detto basta, in nazionale non ci vado più.   Stress? Non facevo bene, non reggevo. Forse mi sono perso il Mondiale nel 2010. Quando arrivò il Maestro, nel 2006, io avevo già in testa di lasciare. Giocavi, poi andavi a Roma, volo per Madrid, da lì a Buenos Aires o Montevideo, partita, ritorno. Guardate che non è facile”.

Lopez racconta quindi la sua odissea personale, risalente ormai a una quindicina d’anni fa.  “Con l’Australia, ci giocavamo il Mondiale del 2006 nello spareggio. La prima partita a Montevideo, quattro giorni dopo il ritorno in Australia. Cioè, Australia… Capito?. Dopo novanta minuti andammo subito in aeroporto. Volo per il Cile, da lì per Auckland, in Nuova Zelanda, e da lì per l’Australia. Non finiva più. Non c’erano posti in prima classe per tutti, allora facevamo i turni per stare più comodi. Da quelle partite tornai infortunato. Flessore. A fine stagione avevamo due partite negli Usa e altre due in giro per l’Europa. Dissi basta. L’ho scelto perché non reggevo, o forse fu anche la delusione per la mancata qualificazione”.

Giocare in Sudamerica, poi, non è uno scherzo.  “Molto, lì sono sempre partite intense. E poi ce n’è per tutti i gusti. A me è capitato di andare a giocare contro la Colombia a Barranquilla alle 2 del pomeriggio. Lì al mattino piove, alle 12 c’è il sole. Bene, pensi. Invece l’umidità arriva al centocinquanta per cento. Anziché due chili ne perdi quattro. O vai a giocare contro la Bolivia, a 4.000 metri: fai uno scatto e sei cotto. O in Ecuador a 2.800″. 

Per un allenatore è un problema non da poco.  “Un casino. Si leggono cose tipo: l’allenatore ha due settimane per preparare la squadra. Due settimane? Sì. Ma con cinque, sei titolari quando va bene. Anche a Brescia mi è capitato di lasciare fuori dei ragazzi perché rientravano il venerdì sera. Magari venivano in ritiro, ma poi devi vedere come stanno, e farli giocare è complicato”.

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