La morte a causa di un cancro alla prostata, annunciata con una nota da parte dei suoi cari, dell’ex campione di football americano O.J. Simpson – riconosciuto come uno dei più dotati e potenti di sempre, nella storia dello sport – ha squarciato un silenzio dovuto su quel che è stato.
Ne abbiamo ammirato il talento, anche la spregiudicatezza e il coraggio quando è stato il tempo di scelte spavalde in campo, quanto la fragilità, la paura, il terrore che ha interpretato con scelte fissate in quel che è stato il suo arresto e quel processo a suo carico, devastante, che ha prodotto una letteratura e riempito gli archivi dei media statunitensi.
- Il caso O.J. Simpson
- La morte di Nicole Brown e Ronald Goldman
- La fuga armato e l'inseguimento in diretta tv
- Il processo del secolo
- Assolto per l'omicidio, condannato al risarcimento
- Il dream team di avvocati
- La reazione delle famiglie
- La vita dopo il processo
Il caso O.J. Simpson
Il processo a «the Juice», come era soprannominato quando indossava la maglia dei San Francisco 49ers, lo trasfigurò in imputato di un processo scabroso e controverso, dall’abnorme potere diviso che aveva polarizzato il pubblico dell’America degli anni Novanta.
Il «caso O.J. Simpson» da orrore si è mutato in un racconto documentato, minuzioso, di ispirazione per doc e addirittura una serie che nel 2016 vide la luce, “American Crime Story: The People v. O.J. Simpson”.
La stella del football americano, emblema della comunità afroamericana, era stato sposato con una donna bianca in un’era e in un Paese dove ancora oggi il tema è estremamente attuale. Nicole Brown era stata legata al campione sette anni, dal 1984 al 1992, anno del loro effettivo divorzio ma la loro relazione si era interrotta; il suo corpo straziato da decine di coltellate venne rinvenuto nella sua abitazione, in giardino vicino a quello del cameriere Ronald Goldman, a Brentwood attorno alla mezzanotte del 13 giugno 1994.
La morte di Nicole Brown e Ronald Goldman
Secondo quel che emerse, poi, il cameriere era lì per aver riconsegnato alla donna gli occhiali dimenticati dalla madre e non vantava alcun legame affettivo o sentimentale, come fu ipotizzato in prima istanza, con l’ex moglie di Simpson la quale aveva denunciato, però, l’ex campione per violenza domestica. La loro era una separazione tesa, intrisa anche di accuse di atti che durante il processo inquinarono l’immagine pubblica di O.J. che fu imputato per aver assassinato l’ex e il giovane ritrovato privo di vita accanto alla donna, sua seconda moglie e madre di due figli dell’ex giocatore.
Nessun testimone aveva assistito all’omicidio, mentre Simpson tecnicamente vantava un alibi: risultava, infatti, essere su un aereo da Los Angeles a Chicago alle 23.45 di quella sera. A indirizzare gli investigatori contro di lui fu questo precedente, ovvero la decisione di Nicole Brown di sporgere denuncia nei riguardi dell’ex marito e la prova del ritrovamento di alcune gocce di sangue che portarono a lui. Difeso dall’avvocato Robert Shapiro, fu formalmente accusato di duplice omicidio il 17 giugno: così incominciò il processo a suo carico, mentre il caso Simpson era già realtà.
La fuga armato e l’inseguimento in diretta tv
La reazione di Simpson fu scioccante, per quanti avevano osannato il campione e avevano alimentato il suo mito costretti ad assistere a una diretta estenuante, divenuta un genere mediatico che incollò al piccolo schermo 95 milioni di americani e non solo. La polizia avvertì l’avvocato che Simpson doveva consegnarsi entro le 11 del mattina, lo andò quindi a prelevare a casa dell’amico, avvocato e poi difensore nel corso del processo a suo carico, Robert Kardashian (padre di Kim e delle sue sorelle) nella San Fernando Valley, a sud di Los Angeles, ma Simpson era irreperibile.
Simpson durante il processo con Robert Kardashian
Il panico aveva preso il sopravvento, qualcosa era scattato nella sua testa anche se non svelò mai davvero i motivi di quella scelta e la resistenza nei riguardi delle forze dell’ordine. O.J. era fuggito, a pochissimo dall’arresto, con l’amico ed ex compagno di squadra Al Cowlings sulla sua Ford Bronco, lasciando che scattasse un autentico inseguimento sull’autostrada 405, diretta verso Orange County, che bloccò sia gli uomini della polizia, sia i mezzi a loro disposizione per bloccare Simpson, che era armato.
Il campione emblema del successo e di un sogno americano che si sgretolava così, sull’onda delle pressioni scaturite dalla tragica morte dell’ex moglie, era pronto ad uccidersi e minacciava di spararsi per opporsi alla cattura e a processo, di cui già avvertiva la pesantezza. La mediazione degli attori coinvolti, anche dei suoi legali, consentì di scansare il dramma: O.J. decise poi di tornare a casa sua a Brentwood, consentendo l’arresto la sera alle 19.45.
Il processo del secolo
Del processo conosciamo tanto, forse ogni componente è stata filtrata dalla narrazione dei media dell’epoca. Basta osservare la quantità di url presenti nell’archivio consultabile della CNN online per comprendere la portata di quel che fu, per quanti non vissero quel procedimento.
Fu un processo all’uomo, campione ma anche personaggio pubblico e nero in un mondo ancora intriso di pregiudizi razziali e insinuazioni, che vennero a galla nell’arco di quelle udienze che costituirono poi precedenti centrali nel sistema americano.
Il processo, ufficialmente noto come riporta il fascicolo People of the State of California v. Orenthal James Simpson, ebbe luogo a Los Angeles e cambiò la giurisprudenza americana e probabilmente anche il ruolo dei media, in un processo penale.
Assolto per l’omicidio, condannato al risarcimento
Simpson fu infatti scagionato per mancanza di prove nel 1995, sfuggendo alla sedia elettrica, anche se poi nel 1997 fu giudicato colpevole nella causa civile intentata dalle famiglie delle vittime, che furono risarcite con oltre 30 milioni di dollari ciascuna.
Un paradosso evidente, nella giustizia e nell’opinione pubblica americana, che complicò ulteriormente la definizione dei fatti e compromise definitivamente l’immagine pubblica dell’ex giocatore di football, già incrinata da quanto emerse nel corso del processo per il duplice omicidio che, in accordo con quel che fu accordato in merito alla possibilità di riprendere e trasmettere le udienze. Fu il più noto processo televisivo, almeno per l’epoca in cui si svolse.
L’omicidio, terribile ripetiamo, divenne il caso del decennio per via della popolarità di Simpson e dell’arguzia dei suoi legali che rimisero al centro, forse spostando addirittura il baricentro, la questione razziale.
La prima giuria era composta da dodici persone, composta da sette afroamericani, un ispanico e quattro bianchi. L’accusa descrisse Simpson come un uomo violento, che abusava di una moglie esasperata a tal punto da sporgere denuncia a suo carico, mentre il dream team di avvocati – tra amici e professionisti – che lo sostenne incentrò la questione sulla discriminazione che stava subendo il loro assistito.
Emersero alcuni interventi da parte delle forze dell’ordine, per sedare liti e violenze domestiche che non ebbero evoluzione fino alla decisione di Nicole di interrompere la relazione e chiedere il divorzio. La seconda moglie del campione decise di sporgere denuncia e di intraprendere un percorso difficile che venne presentato, nel corso delle udienze, dall’accusa.
La loro unione era durata molto ed era giunta quando Brown aveva appena 18 anni: si erano conosciuti in un locale dove pare lei svolgesse l’attività di cameriera. Quando si incontrarono, il matrimonio con la prima moglie – Marguerite Whitley – era ormai alla conclusione: la loro vita era stata segnata anche dalla disgrazia che provò l’intero nucleo familiare.
La più piccola dei loro tre figli, Aaren, a soli 23 mesi – secondo le cronache dell’epoca (1979) – morì annegata nella piscina della loro residenza a Los Angeles. Una autentica e irreversibile tragedia, nell’esistenza del campione di football e di Whitley, genitori anche di Jason e Arnelle.
Il dream team di avvocati
Nel dettaglio furono, tra i tanti elementi persuasivi e convincenti per la giuria, presentati alcuni fatti che assunsero presto importanza. I poliziotti erano bianchi, l’investigatore Mark Fuhrman che aveva rinvenuto i famosi guanti insanguinati, era stato al centro a sua volta di investigazione da parte dei legali che rappresentavano Simpson. Emersero episodi di bullismo, discriminazione razziale che intaccarono la figura di Furham.
E poi la celebre udienza dei guanti, che non calzarono mai ad O.J. alimentarono nei giurati l’idea che le prove a carico dell’ex campion non erano sufficienti per la sedia elettrica. Quelle macchie di sangue che avevano portato all’incriminazione, furono poi invalidate. Insomma il teorema su cui si reggeva la tesi accusatoria sembrava sgretolarsi, sostenendo la dichiarazione che fece propria Shapiro, in seguito, quando affermò che gli assassini ricchi non finiscono quasi mai condannati a morte perché, potendo permettersi avvocati più capaci e studi più strutturati, sono meglio tutelati. Una dichiarazione sconvolgente.
Simpson con i famosi guanti
Nella sintesi che si legge sulla Cnn, di quel procedimento a cui seguì la causa civile, quelle udienze devastanti furono definite in questo modo: “Una giuria lo ha dichiarato non colpevole in un processo che ha visto il fascino dell’America per le celebrità scontrarsi con la sua lotta secolare contro la razza, così come con questioni di classe, polizia e giustizia penale. Questi temi – e la decisione del giudice di consentire la trasmissione televisiva del processo – si sono fusi in quello che molti hanno definito il “processo del secolo” che ha tenuto l’attenzione del paese in una morsa per quasi nove mesi prima di trasformarsi in una pietra di paragone culturale.
Nel 1997, un’altra giuria ritenne all’unanimità Simpson responsabile della morte ingiusta di Brown Simpson e Goldman in una causa civile intentata dalla famiglia di Goldman e gli ordinò di pagare 33,5 milioni di dollari di danni”.
La reazione delle famiglie
Simpson fu assolto dalla giuria dall’accusa di duplice omicidio, ma una diversa lo condannò a conclusione della causa civile intentata dalle famiglie per il risarcimento.
Kim e Fred Goldman, i genitori di Ron Goldman, hanno affermato in un comunicato che “la notizia della morte dell’assassino di Ron è un miscuglio di emozioni complicate e ci ricorda che il viaggio attraverso il dolore non è lineare”. “Per tre decenni abbiamo perseguito instancabilmente la giustizia per Ron e Nicole, e nonostante una sentenza civile e la sua confessione in (un libro intitolato ‘If I Did It’), la speranza per una vera responsabilità è finita”, hanno fatto sapere i Goldman. “Continueremo a difendere i diritti di tutte le vittime e i sopravvissuti, assicurando che le nostre voci siano ascoltate sia all’interno che all’esterno dell’aula di tribunale. E nonostante la sua morte, la missione continua; c’è sempre altro da fare. Grazie per aver mantenuto la nostra famiglia, e soprattutto Ron, nei vostri cuori negli ultimi 30 anni”.
Anche Gloria Allred, l’avvocato di Los Angeles che ha rappresentato la famiglia di Nicole Brown durante il processo penale di Simpson, ha affermato che la sua morte ricorda che il sistema giudiziario “fallisce contro le donne maltrattate” e consente a “uomini famosi di evitare la vera giustizia”.
Forse, però, da quella tragedia il percorso di Simpson fu segnato: O.J. alla fine finì dietro le sbarre in un caso non correlato, scontando 9 anni di una pena fino a 33 anni in seguito alla sua condanna per accuse relative a una rapina a mano armata del 2007 a Las Vegas in cui lui e altri tentarono di rubare sotto la minaccia delle armi ciò che Simpson disse essere pezzi dei suoi cimeli sportivi. Gli è stata concessa la libertà condizionale nel 2017, dicendo alla commissione per la libertà vigilata del Nevada: “Ho scontato il mio tempo. L’ho fatto nel modo migliore e rispettoso possibile, come penso che chiunque possa fare”.
O.J. Simpson durante il processo in Nevada
La reazione al verdetto di non colpevolezza fu in gran parte divisa in base a linee razziali: all’epoca, il 62% dei bianchi intervistati lo riteneva colpevole, mentre il 66% degli afroamericani lo riteneva non colpevole, ha mostrato un sondaggio della CNN e del Time Magazine . Inoltre, il 65% degli afroamericani credeva che Simpson fosse stato incastrato.
La vita dopo il processo
Simpson, allora come negli anni, ha continuato ufficialmente a sostenere la propria innocenza. e ciò nonostante quel che è stato: ha scritto un libro intitolato “If I Did It”, che è stato promosso come un ipotetico resoconto di prima mano degli omicidi. L’editore inizialmente cancellò la sua pubblicazione, ma il volume vide poi la stampa nel 2007 con il titolo “If I Did It: Confessions of The Killer”, dopo che un giudice assegnò i diritti alla famiglia Goldman, con proventi destinati a milioni di dollari per compensare il mancato versamento del risarcimento stabilito dalla causa civile.
Simpson allo stesso modo – e ancora una volta, ipoteticamente, ha detto – descrisse gli omicidi in dettaglio in un’intervista del 2006 complementare al libro e tenuta per anni negli archivi prima di essere messa in onda nel 2018; alcune frasi erano talmente interpretabili da suscitare inevitabile confusione.
Quindi, come ha scritto Gene Seymour, ora che è morto che cosa rimane dell’enigma perennemente controverso e provocatorio che fu Orenthal James Simpson?