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Velasco impone il reset: "Basta parlare di Parigi, il mondiale 2025 sarà tutta un'altra storia"

In una lunga intervista il CT della nazionale femminile di volley prova a delineare gli scenari: "Al mondiale senza pensare al passato". E poi parla del rapporto tra genitori e figli

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Roberto Barbacci

Roberto Barbacci

Giornalista

Giornalista (pubblicista) sportivo a tutto campo, è il tuttologo di Virgilio Sport. Provate a chiedergli di boxe, di scherma, di volley o di curling: ve ne farà innamorare

Ci vorrebbero non uno, ma almeno dieci Julio Velasco per rendere il mondo un posto migliore. Perché ogni volta che il tecnico di La Plata decide di parlare ne esce fuori sempre qualcosa di buono. Anche adesso che il 2024 magico del volley italiano al femminile s’è concluso, col 2025 che porterà in serbo nuove sfide. Le stesse che il coach della nazionale proverà a vincere da qui ai prossimi quattro anni, fresco di rinnovo con la FIPAV fino al 2028, quando a Los Angeles proverà a chiudere la carriera con un’altra medaglia d’oro da mettere al collo.

Parigi è il passato: “Non ne voglio sentir più parlare”

Quella vinta a Parigi luccica già nella vetrina di casa, ma il 2025 è l’anno del primo mondiale organizzato negli anni dispari e Velasco sa perfettamente che ripetersi sarà difficile. “Tante squadre dopo aver vinto l’oro olimpico sono poi “sparite” dal radar. Penso alla Polonia del 1976 o all’Olanda del 1996, che non sono più riuscite a ripetersi per decenni.

Ecco, noi dovremo cercare di evitare di cadere in questa trappola: bisogna pensare piuttosto di aver “perso” le olimpiadi, fissando una sorta di data dalla quale non si torna più indietro. Da quel momento in poi sarà come tirare una riga: basta festeggiamenti, basta celebrazioni, si resetta tutto e si riparte. Non vorrò più sentir parlare di Parigi, nemmeno nelle interviste”. Conoscendo il personaggio Julio, il ragionamento non sembra fare una piega.

“Troppi impegni e non c’è più spazio per l’ozio e la creatività”

Nell’intervista rilasciata a Repubblica, il vate della pallavolo italiana ha cercato però di andare oltre. E ha dispensato pillole che potrebbero tornare utili anche per quei tanti genitori che sognano di vedere i propri figli diventare dei campioni, senza pensare che in fondo l’unica cosa che dovrebbe contare è di vederli felici e contenti.

Il mondo è cambiato a una velocità davvero notevole. Io faccio parte della generazione di rottura, quella degli anni ’60, dove contestare il sistema era all’ordine del giorno: allora i nostri genitori ci dicevano che sbagliavamo tutto, perché quel modo di ragionare ci avrebbe portato verso un mondo peggiore. Invece no, non ci sbagliavamo, ma adesso il web ha aumentato anche la stupidità, oltre all’accessibilità a certe cose che, anziché imparare a farle, vengono offerte senza fatica.

Il problema però è che i figli fanno troppe cose, perché hanno il corso di inglese, l’allenamento sportivo, lo studio, e per loro rimane poco tempo libero per la noia e l’ozio creativo. È ingeneroso sentir dire che i giovani di oggi non hanno voglia di fare le cose”.

“I figli devono imparare a cavarsela da soli”

Quello della crisi genitoriale è un tema molto caro a Velasco. “Oggi i genitori hanno paura della frustrazione dei figli, pensano che i traumi danneggino la loro anima per sempre. La storia dimostra che non è così: altrimenti dopo la guerra, con una generazione cresciuta in mezzo alla guerra e alla miseria, cosa sarebbe dovuto succedere? Intervengono troppo. Parlano con l’allenatore, parlano con l’insegnante. Per aiutarli, ovviamente, ma non capiscono che ciò che ti rende forte è un buon sistema immunitario. Per costruirlo, però, devi anche ammalarti e superare il virus. E lo devi superare tu, da solo. C’è un paradigma sottinteso: se non intervieni non ti prendi abbastanza cura. Ma non è così: mia madre quando ci diceva che dovevamo arrangiarci lo usava come metodo. Perché quando la mano del genitore ti molla come fai?”.

E poi c’è il discorso relativo al “successo”: “A volte i genitori usano i figli come specchio narcisistico, quindi solo per avere conferme su di loro. I figli ti devono piacere perché sono tuoi, non perché sono i migliori. Non c’è un ranking: tuo figlio non vale solo se arriva in alto, altrimenti è un fallito. Quando un genitore dice “mio figlio è bravo ma non lo capiscono”, sta tranquillizzando se stesso. “Non è colpa sua” vuol dire “non è colpa mia”.

“La vita non è un campionato”: la critica ai genitori “arrivisti”

Velasco, tra i tanti pensieri offerti, ne ha uno anche per lo sport e il suo valore pedagogico. “Non deve essere trasformato in una lente per guardare alla vita, altrimenti non farebbe bene a nessuno. La vita non è un campionato. Se la musica o l’arte diventano una classifica, come nei talent, può anche essere divertente, ma applicando lo schema in modo rigido diventa un po’ mostruoso. Van Gogh sarebbe retrocesso e solo da morto avrebbe vinto la Champions.

Il concetto di gruppo unito invece viene ridimensionato in fretta:Anche chi perde può avere un gruppo unito. Aiutare una compagna non è un gesto di solidarietà o di affetto, ma fa parte del gioco. Quando sono arrivato nella nazionale femminile non abbiamo parlato dei problemi che c’erano stati tra le giocatrici negli anni precedenti, ma, per esempio, abbiamo ruotato sempre le camere, ogni settimana si cambiavano le compagne di stanza e, per quel che so, ci sono stati chiarimenti tra loro. Ma riguardava loro.

Certi stereotipi sono alimentati anche da noi sportivi. Da noi allenatori. Lo facciamo ogni volta che esortiamo e non diamo indicazioni concrete. Diciamo “giochiamo di squadra” o “dobbiamo sbagliare meno”. La verità è che tu allenatore non sai bene cosa dire e quindi esorti. Non è comunque un ruolo facile: il cambiamento fa paura perché è troppo veloce, ogni mese c’è un software nuovo, impari e devi già aggiornarti. Chi gestisce le persone dovrebbe pensare a questo, il rischio sennò è di mettere troppo stress.

Per cambiare una squadra devi proporre poche cose, sapendo che il cambiamento a volte è bello e a volte no, perché è complicato fare una cosa nuova. Riconoscere le difficoltà è la prima cosa, le persone così si sentono capite, la seconda è trasmettere fiducia, far sentire che ce la si può fare, non giudicando al primo errore o trattando gli altri da poveri incapaci. I giocatori e le giocatrici non sono noi e sono diversi tra loro”.

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