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Che fine ha fatto Filippi, il maratoneta silenzioso del Napoli

Esploso nel Vicenza ha chiuso col mondo del calcio

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E’ un padovano di quelli da olografia: poche parole, tanti fatti e serietà al primo posto. Roberto Filippi non poteva contare su un fisico imponente, ma i suoi polmoni valevano per 4, così come le sue sgroppate sulla fascia. Dopo Padova e Reggina la sua grande occasione arrivò nell’ottobre 1975, quando lo acquistò il Lanerossi Vicenza che stava per scrivere la sua favola più bella. Dopo un anno di assestamento fu fra i protagonisti della promozione in Serie A. Alla prima stagione da titolare in massima serie, nel 1977-1978, fu fra i protagonisti del cosiddetto Real Vicenza che con Gb Fabbri in panchina e Paolo Rossi capocannoniere, conquistò il secondo posto dietro la Juventus; Nella stagione seguente passa al Napoli. Giocò in maglia azzurra dal 1978 al 1980, facendo innamorare i tifosi. Maglietta fuori dai pantaloncini, capelli fluenti che arrivano alle spalle, baffi spioventi e tanta grinta.

Filippi racconta la prima casa presa in affitto a Napoli

A storie di calcio Filippi raccontò che una signora a Napoli gli aveva chiesto 700.000 lire al mese per un alloggio ammobiliato in via Petrarca, la strada dove abitavano la maggior parte dei calciatori napoletani. «Ma chi crede che sia?», ha ribattuto il piccolo Filippi. E la signora: «Oddio, un calciatore del Napoli». «Io – ha chiarito Filippi – però non sono Savoldi. Vede, Savoldi sta lì (e ha sollevato la mano oltre il suo capo) e io sono soltanto qui (e la mano l’ha abbassata al livello della cintura del pantalone)”.

“Settecentomila lire non le posso assolutamente pagare. Non sono venuto a Napoli per lavorare per lei. Oltre 450.000 lire io non le pago. E, quando torno a Padova, non posso nemmeno dire agli amici che ho dovuto sborsare tanto per una abitazione. Mi riderebbero dietro».

A Vicenza correva per Rossi, a Napoli lo fece per Savoldi («Rossi lo cercavo rasoterra – raccontò al Giornale di Vicenza – Beppe in acrobazia. Rossi preferiva il movimento, Savoldi è un centravanti da area di rigore»). Per due anni di fila Filippi vinse il Guerin d’Oro, ma la Nazionale non gli aprì mai le porte. La modestia gli è rimasta. «Al Vicenza c’erano anche altri a sgobbare. Per esempio Guidetti. Ma tutti, tutti facevano la loro parte. Con Rossi sopra tutti, di parecchie spanne. La verità è che eravamo una famiglia, in cui nessuno era in disaccordo. Fabbri era bravissimo, tutto qui. Io correvo da ogni parte del campo. Avevamo un centrocampo ben assortito. Con Salvi in cabina di regia, Faloppa pronto a ripartire, Cerilli sulla destra e io pronto a infilarmi ovunque».

La carriera di Filippi dopo Napoli

Lasciato il Napoli andò all’Atalanta, poi al Cesena, per tornare infine a Vicenza nel 1983 dove chiuse la carriera alle soglie dei 39 anni. Decise di intraprendere la carriera di allenatore ed ha guidato Treviso, Pro Gorizia, Luparense, e i settori giovanili di Treviso e Padova (Berretti), è stato il vice-allenatore di Gianfranco Bellotto alla Salernitana nel 2007. Nel 2008 viene chiamato dalla Piovese (compagine di Piove di Sacco in Provincia di Padova) in eccellenza, poi sempre ruoli di piccolo cabotaggio. Ha svolto per un periodo anche il ruolo di osservatore per la Juventus.

Filippi ha dimenticato il passato

Oggi ha pochi link col mondo del calcio, non fa il commentatore, non ama (oggi come allora, le interviste): «I compagni di allora li sento con piacere – disse ancora al Giornale di Vicenza – furono stagioni irripetibili. Ma al Menti oramai saranno dieci anni che non metto più piede. Non è una questione personale. Non vado più nemmeno a Milano o in altri posti. Mi piace stare a Campodarsego e preferisco assistere a qualche partita di ragazzini. Arrivo fino all’Eccellenza. Punto. Diciamo che non guardo tanto indietro. Piuttosto ritorno con un filo di nostalgia a tanti particolari. Ricordo la domenica, quando dall’hotel dove eravamo in ritiro, andavamo a piedi verso il Menti. Incontravo la gente, i tifosi, che ci salutavano con tanto affetto. C’erano intere famiglie che andavano allo stadio. Io giocavo per divertirmi e devo ammettere che sì, ai soldi ci pensavo. Ma non erano poi così determinanti. Erano altri tempi».

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