Arco di Trento, stadio Comunale. Nelle gambe di Alex Schwazer c’era un tempone. Comincia a calpestare la pista mezzora prima del via. Sono le 19 quando parte il primo tributo per il marciatore, non vedevano l’ora di dare il là alla festa: duemila persone, fanno quattromila mani e un applauso che non si misura in decibel, semmai in emozioni.
Ad Arco in cerca di un lieto fine: mi sarei fatto andare bene un “occhi negli occhi” anche una volta sola. Alex in forma, Alex in pace, Alex che ride. C’è del disordine, lo so. Dovrò poi fare tutta una passata. Ho trovato una storia di provincia. Periferica. L’inconscio. Tribuna gremita di tute e magliette, di madri e di figli, di cori e oscillazioni sincrone. Schwazer ha coperto il primo chilometro: 4 minuti e 4 secondi.
- Il capolavoro è pieno di imperfezioni
- Il minimo olimpico per le Olimpiadi: un'ora, 22 minuti e spicci
- Sandro Donati sintetizza l'essenziale
- Fa tre cose, Alex, mentre gareggia
- Quel coro che si sente ai concerti di Vasco
- Chi è Damiano Barbieri
- L'esclusiva con Barbieri: esserci, perché?
- Non c’è spazio per gli ultimi otto anni di Alex
- Non ci saranno cambiamenti, atleta per sempre
- Ho trovato una straordinaria storia di provincia
Il capolavoro è pieno di imperfezioni
La vita, ci pensa lei: insegna a tener conto di chi c’è e lasciare andare chi manca. Certo che sarebbe piaciuta a Pier Paolo Pasolini, una sera così. L’ha detto: il capolavoro è una storia piena di imperfezioni.
C’è qualche falla nel racconto, lo so bene: col tempo, certo, rammenderò. È tutto maledettamente realistico: chi chiude gli occhi per un attimo – da queste parti l’hanno fatto tutti un sogno così, almeno una volta nell’ultimo anno, anno e mezzo – ritrova la Francia. Scorre un fiume, vicino al Comunale di via Pomerio. Ma il Sarca non è la Senna.
Il simbolo della città campeggia lassù, in cima: è dominante. Chi tira su col naso per una manciata di secondi – da queste parti hanno inspirato, fino a fare sold out nei polmoni, almeno una volta nell’ultima dozzina di mesi – inala Parigi. Invece no: la vedetta adagiata su uno sperone di roccia è un castello medievale restaurato quasi quarant’anni fa, mica la Tour Eiffel. Alex però è sempre lui: Arco o Parigi, chisseneimporta. Archivia il secondo chilometro, il cronometro dice 8 minuti 10 secondi.
Il minimo olimpico per le Olimpiadi: un’ora, 22 minuti e spicci
Schwazer appena dopo metà gara rallenta una prima volta, si ferma, riparte. Poi rallenta di nuovo. C’erano 35 gradi alle 17 di venerdì 19 luglio: lungo la statale che costeggia il Garda e punta Trento, un sole a palla. Tre ore dopo viene giù l’acqua, sale il vento che condiziona anche la prestazione: inizia a piovere mentre Alex è a ridosso del decimo chilometro. Sta andando forte.
Un dato: il minimo olimpico stabilito dalla Fidal per qualificarsi ai Giochi del 2024 era di un’ora, ventidue minuti e dieci secondi. Schwazer ha marciato la prima metà di gara in 42 minuti 14 secondi. Parte un applauso crescente che nessuno ha voglia di interrompere: parecchi dei presenti sono avvezzi all’atletica. Amatori, appassionati o anche solo corridori del sabato e della domenica: lo sanno tutti, la gara vera comincia nella seconda metà. Alex ha chiuso il terzo chilometro: 12 minuti 19 secondi.
Sandro Donati sintetizza l’essenziale
Sandro Donati è in polo verde a mezze maniche, aspetta Alex in un angolo della pista a ogni giro: si incrociano per qualche secondo, di 400 metri in 400 metri. “Risparmia, adesso”. “Stai andando bene”. “Dosa le forze”. Schwazer tiene lo sguardo fisso, davanti; il professore si avvicina per sintetizzare l’essenziale in poche battute.
Ma è un attimo, perché Schwazer fugge via e lascia giusto una scia: sembra un motoscafo, passa e sposta l’acqua. Sembra Monza, fermo nello stesso identico punto ad aspettare Verstappen che ti sfreccia davanti una volta ogni giro: scatti con una macchina fotografica per eternizzare ma la foto è sempre mossa. Donati è una roccia: imperituro. Annacqua l’emozione con l’esperienza ma si vede benissimo: è teso, colpito, in partita. Finisce il quarto chilometro: 16 minuti 26 secondi.
Fa tre cose, Alex, mentre gareggia
Partono in tre. Mirco, Schwazer e Damiano Barbieri. Fa tre cose, Alex, mentre gareggia.
- La prima è che marcia col suo stile, un biglietto da visita: pensi al suono e ai rimandi razionali che arrivano quando pronunci la parola. La marcia. Ha un che di ruvido, duro, militaresco ma questa eleganza sfacciata – quella di Alex, intendo – la fa somigliare a una danza.
- La seconda è che tiene sotto controllo il crono. Movimento frequente, mi colpisce subito: non ho mai portato un orologio ma capisco che non è sempre possibile misurare tempo e distanza coi passi.
- La terza rimanda alle espressioni facciali: gli guardi il volto e capisci tutto. La mimica della concentrazione, quella del controllo, poi la consapevolezza. Tutto meravigliosamente in linea con le aspettative. L’ho pensato in fretta: l’ultima volta di Schwazer – tra i tanti perché – forse ne ha pure un altro. Stare dentro l’ora e ventidue minuti, portarsi a casa il pass olimpico: non serve a nulla ma il nulla è come l’ozio. A volte diventa una ragione di vita. Il gran finale. Poi qualcosa si storce. La bocca si deforma e tira verso l’esterno guancia, la fronte si stringe, le sopracciglia si aggrottano.
Fatica o dolore, cos’è? Comincia a girare una voce: Schwazer non si allena da dieci giorni per una sciatalgia. I primi 5 chilometri in 20 minuti 35 secondi.
Quel coro che si sente ai concerti di Vasco
Un corridoio d’asfalto a cielo aperto porta verso lo stadio di Arco. A sinistra c’è un banchetto in cui si espone e si vende una t-shirt celebrativa: immortala l’evento, Alex a mezzo busto, la data ricordo e il modo per dirgli che non sarà mai solo. Un’altra postazione è per ritirare gli accrediti. A destra il chiosco per bere e mangiare. C’è un fan club sugli spalti. Il microcosmo essenziale di Schwazer: la moglie e i due figli.
Olé olé olé olé. Alex. Alex. Sento una ventina di volte lo stesso coro che ho ascoltato centinaia di volte ai concerti di Vasco. Lo speaker non lascia tempi morti: pare faccia il mestiere da una vita, invece è un debutto assoluto. Donati interviene al microfono un paio di volte. “Alex si è preparato da solo: per la sua età marcia a ritmi incredibili”. Arriva il passaggio dei sei chilometri: 24 minuti 46 secondi.
Chi è Damiano Barbieri
Damiano Barbieri è un papà di 42 anni anni con famiglia al seguito. Ad Arco sembra un palo a rovescio: gli tocca l’isolamento di guardarsi dentro e trovare motivazioni mentre là fuori succedono cose che lo riguardano senza un coinvolgimento diretto. Detta con fretta: serve anche che Alex abbia un riferimento coi doppiaggi. Invece Barbieri taglia il traguardo da solo. Primo.
La sua 20 km dura un’ora e cinquantatré minuti spicci. Conosce Schwazer dagli inizi della carriera di entrambi, hanno un paio d’anni di differenza ma non si sono mai trovati contro nella stessa gara: né su strada né su pista. C’è stato nell’epilogo. Gli ultimi passi della marcia pro di Alex arrivano intorno al chilometro 14 ma è da un po’ che si trascina. Fa un centinaio di metri, supera Barbieri, si ferma. Barbieri lo ripassa. Alex riprende a marciare, allunga per altri cento metri e supera di nuovo Damiano. Si ferma ancora. Barbieri ripassa.
Per dire: gli ultimi suoi tre chilometri, Schwazer, li fa in quattordici minuti. Un’eternità. Prosegue per inerzia, continua per rendere onore a chi c’è. E cento metri dopo si pianta. Stavolta non riparte più. La celebrazione di Alex avviene mentre Barbieri è in piena gara. In pista è rimasto solo lui. Schwazer si avvicina alla tribuna, si concede a tutti, prende il microfono, parla. Il game over di Alex mi rimanda a quella volta che hanno sostituito Alex. Ricordo l’addio al calcio di Del Piero: Juventus-Atalanta ancora in svolgimento e nessuno a curarsene, forse nemmeno i calciatori in campo.
L’esclusiva con Barbieri: esserci, perché?
Quando si accendono le telecamere e Schwazer si concede alle tv, gli spalti restano gremiti e Arco di Trento torna a sembrare Parigi mentre il pubblico non si muove dalla gradinata. Il tifo si sposta da Alex a Damiano e lo spirito è quello della migliore tradizione olimpica. C’è una storia nella storia, miriadi di sfaccettature: la marcia non è una gara di velocità. L’adrenalina non raggiunge picchi d’intensità in pochi secondi. Semmai diventa un corso di sopravvivenza: bisogna resistere anche emotivamente. È la sera di Alex ma diventa pure quella di Damiano. È bagnato fradicio: sudore ed effetto meteo, però, non si distinguono più.
Com’è il giorno dopo?
“Eh. Qualche acciacco c’è ma pensavo peggio. Sono ancora dentro l’emozione. Ho corso contro Schwazer e l’ho battuto (Barbieri ride, ndr). Per me chiudere la gara è stata un’impresa. Nel finale ho lasciato diversi minuti per stanchezza. Ho un margine di quattro, cinque minuti. Alex è di un altro pianeta, io sono un semplice operaio che si allena due o tre volte alla settimana”.
Hai voluto esserci. Perché?
“L’ho sempre intravisto, da quando eravamo giovanissimi. Ho seguito la sua storia: avrebbe potuto superarmi anche cinquanta volte, non mi sarebbe importato. Volevo essergli di sostegno”
Gli spettatori sono rimasti lì per te, fino all’ultimo passo. Poi ti hanno celebrato
“È stata un’emozione incredibile. Io corro in Veneto e nelle gare ci sono uno speaker e quattro familiari al seguito. Non ho mai partecipato a una marcia con un tifo del genere: sono rimasti per me, sotto la pioggia a darmi forza fino al finale. Poi gli autografi, le foto, la tv: ho provato quello che prova un campione”.
Vi siete mai parlati, con Alex, in gara?
“Ho cercato di non intralciarlo mai però sì: ogni volta che me lo trovavo di fianco ho provato a stimolarlo. Gli ripetevo di pensare a tutti i sacrifici fatti”.
Che vorresti dire a Schwazer?
“Mia nonna, novantenne, lo ha visto al Grande Fratello e mi ha chiesto di salutarlo. La marcia in Italia è conosciuta anche grazie a lui. Ha dentro ancora tanto: capisco che l’età avanza e restare a certi livelli comporta sacrifici. Per me è stato un grande nonostante tutto quello che è successo. Spero ci ripensi. Mi auguro possa prendere parte a un campionato italiano assoluti, metterne dietro più di qualcuno e poi dire basta. Fisicamente non stava bene, l’ho visto fasciato anche sotto i piedi. Alex, però, sa da solo quello che deve fare”.
Non c’è spazio per gli ultimi otto anni di Alex
Sui cadaveri dei leoni festeggiano i cani credendo di aver vinto. Ma i leoni rimangono leoni e i cani rimangono cani. È l’unico riferimento al fardello del passato più o meno recente. Non c’è spazio per gli ultimi otto anni di Alex a eccezione di uno striscione che rimane affisso in tribuna fino alla fine. Un vecchio proverbio: lo leggiamo tutti, non commenta nessuno, è in luogo ma ne resta fuori.
L’unico accenno indiretto arriva da Alessandro Betta, sindaco di Arco: “Abbiamo accolto l’evento con gioia: la nostra è una comunità aperta che guarda lo sport e le persone con rispetto”. Ogni passaggio di Schwazer davanti alla tribuna è un boato: si alzano tutti in piedi. Esistono situazioni di siffatta forza esplosiva? Motivazioni più grandi di quelle condivise, intendo dire.
Non ci saranno cambiamenti, atleta per sempre
C’è una spinta propulsiva individuale che sa essere più incisiva di un soffio collettivo? Forse negli sport estremi. O, più in generale, in quelli individuali. Per certi versi anche nella marcia: chiede una condizione fisica eccellente ma se lasci la testa altrove non girano nemmeno le gambe. E i brividi, in buona parte, devi cercarli da solo. Schwazer zoppica vistosamente mentre si lascia avvolgere dall’abbraccio corale.
Bellissimo. Davanti a tutte queste persone in tribuna a sostenermi sempre. Volevo esserci a tutti i costi, nonostante la sciatalgia: per loro e per i miei figli, mostrargli quello che ho fatto per tanto tempo. Dal quarto chilometro ho iniziato ad avere problemi. La mia vita va avanti come è stato finora: non ci saranno grandi cambiamenti. Atleta lo sarò sempre perché lo sono dentro.
Nelle gambe di Schwazer c’era un tempone, intorno a lui l’atmosfera del lieto fine. Mi sarei fatto andare bene un “occhi negli occhi” anche una volta sola. Vedere Alex in pace. Scorre un fiume, vicino al Comunale di via Pomerio. Ma il Sarca non è la Senna. Un dato: il minimo olimpico stabilito dalla Fidal per qualificarsi ai Giochi del 2024 era di un’ora, ventidue minuti e dieci secondi. Schwazer ha marciato la prima metà di gara in 42 minuti 14 secondi. L’ho pensato in fretta: l’ultima volta di Schwazer – tra i tanti perché – forse ne ha pure un altro. Stare dentro l’ora e ventidue minuti, portarsi a casa il pass olimpico: non serve a nulla ma il nulla è come l’ozio. A volte diventa ragione di vita.
Ho trovato una straordinaria storia di provincia
Questa eleganza sfacciata – quella di Alex, intendo – svuota la marcia di ruvidità e la fa somigliare a una danza. Gli guardi il volto. La mimica della concentrazione, quella del controllo, la consapevolezza. Poi qualcosa si storce. Comincia a girare una voce e si cristallizza presto: Schwazer ha la sciatalgia da un paio di settimane. Ogni passaggio di Alex davanti alla tribuna è un boato: si alzano tutti in piedi.
Esiste una spinta propulsiva individuale che sa essere più incisiva di un soffio collettivo? L’epilogo è cosa nota. Lo riscrivi 300 volte fino alla perfezione: ogni volta ne cambi una sfumatura, tratteggi un dettaglio nuovo, sposti una cosa da qua e la incastri là. Invece poi si riduce tutto a un mal di schiena che detta modi, tempi e priorità. Cercavo di capire quale fosse la dimensione di Schwazer: ho trovato una straordinaria storia di provincia. Il capolavoro pieno di imperfezione. Sarebbe piaciuta a Pasolini, una sera così.