Aveva sulle spalle un fardello enorme, roba che in pochi avrebbero potuto mai sostenere: essere riconosciuto come l’erede universale di Micheal Jordan in quella Chicago che all’inizio del nuovo millennio viveva già di ricordi. Derrick Rose però quel peso non ha saputo sopportarlo. O meglio, non lo hanno fatti i suoi arti, che a più riprese gli hanno presentato un conto salatissimo.
Nella testa, lui poteva davvero diventare l’erede di MJ, con tutte le dovute proporzioni. L’avevano capito in tanti, anche sponsor e tv. Ma quando le cliniche di mezza America sono diventate più familiari di un parquet, inevitabilmente la magia s’è dissolta.
- Un predestinato, fermato solo dagli infortuni
- Il nuovo Jordan: a Chicago ci credevano davvero
- Gli infortuni a catena e la parabola discendente
- Tanto affetto e nuovi orizzonti
Un predestinato, fermato solo dagli infortuni
Derrick Rose però non è stata una meteora nel mondo dorato dell’NBA. Sin da quando vi è entrato con tutti e due i piedi, cioè nel Draft del 2008 (chiaramente scelto alla numero 1), ha alimentato sogni e fantasie di milioni di appassionati. Sedici anni dopo, però, a soli 36 anni ha voluto (dovuto) dire basta, una volta per tutte. “Il mio prossimo capitolo mi vedrà inseguire nuovi sogni e condividere con gli altri la mia crescita personale”, ha detto a “The Athletic”, il media scelto per annunciare il ritiro dalle scene.
Che era nell’aria da qualche giorno, dopo che i Memphis Grizzlies aveva deciso di tagliarlo in vista della nuova stagione, e dopo un video abbastanza enigmatico apparso sui social nella giornata di mercoledì. Si intuiva già quale fosse l’aria che tirava, ma alla fine DR ha impiegato poco prima di metterci un punto. E l’ha fatto nella consapevolezza di averle provate tutte pur di sovvertire una sorte che con lui è stata davvero maledetta.
Il nuovo Jordan: a Chicago ci credevano davvero
Per capire cosa abbia rappresentato Rose agli occhi degli appassionati NBA bisogna risalire in un’epoca che oggi appare tanto lontana, ma che in fondo non lo è poi così tanto nella sostanza. Un’epoca nella quale tutto sembrava preparare il terreno a un nuovo fenomeno in grado di traghettare la lega verso nuovi orizzonti.
Soprattutto perché arrivava da Chicago, la terra che aveva accolto Micheal Jordan, quella dei 6 titoli dei Bulls in 8 stagioni, lo spot migliore che l’NBA potesse mostrare al mondo intero, nonché il motivo per il quale oggi è diventata una delle leghe più seguite dell’universo sportivo.
Tutto lasciava presagire che quel giovanotto che aveva fatto sfracelli al liceo nella Simeon Academy e poi al college a Memphis, portando i Tigers di John Calipari a un passo dalla vittoria del titolo nazionale NCAA nel 2008, sarebbe diventato il nuovo vate della città del vento. Impossibile non sceglierlo alla 1 al Draft, impossibile non dargli il rookie of the year al primo anno in NBA (poco meno di 17 punti e 7 assist di media a partita).
I Bulls tornano da corsa e il premio di MVP nella stagione regolare 2010-11 testimonia che la via è tracciata, con Chicago che si presenta ai play-off col miglior record della lega (62-20), prima però di fermarsi nelle Eastern Conference Finals al cospetto dei Big3 di Miami (LeBron, Wade e Bosh). Non lo sa ancora nessuno, ma quella resterà l’unica finale di conference della carriera.
Gli infortuni a catena e la parabola discendente
L’anno dopo invero la tavola era già imbandita per la rivincita, ma proprio nella sfida play-off di primo turno contro Philadelphia ecco il primo grave infortunio: il ginocchio sinistro fa crac e Rose deve fermarsi un anno intero. Adidas, che su DR aveva investito tanto del suo futuro, crea grande attesa attorno al ritorno del figlio di Chicago, che pure dopo 10 partite della stagione 2013-14 si ferma nuovamente (salta il menisco destro) e non torna fino al termine dell’annata.
Gli ultimi barlumi di Rose-Mania i Bulls li ammirarono nella stagione 2014-15, chiusa ai play-off in semifinale contro i Cavaliers, dove nel frattempo era tornato LeBron James (iconico il buzzer beater di gara 3, ma i Cavs vinsero poi le tre successive partite chiudendo la serie sul 4-2). L’anno dopo, a causa di altri problemi fisici, Rose cominciò a uscire ormai dal radar di Chicago, che a fine stagione lo mandò ai Knicks.
Otto anni dopo averlo innalzato a nuovo MJ, la sua stessa gente comprendeva con amarezza che tutto ciò si era tramutato definitivamente in una grande illusione.
Tanto affetto e nuovi orizzonti
L’ultima parte della carriera di Rose è stata costellata da continui cambi di maglia e poca gloria. Ha ricevuto un affetto sconfinato in ogni arena dove è entrato, perché tutti davvero avevano visto in lui qualcosa, senza però riuscire a vederla compiuta. “Bello o brutto, ognuno nella sua vita ha un momento in cui si domanda come sarebbero potute andare le cose se non ci fossero stati determinati eventi… ma io non cambierei niente della mia vita, perché mi ha reso la persona che sono”.
Nessun rimpianto, solo la consapevolezza di una storia che poteva andare molto diversamente da come è andata. “Credo che il vero successo stia nel diventare la persona che sei destinata a essere: ora voglio mostrare al mondo intero che il mio impatto va oltre la pallacanestro”. E tutti faranno il tifo per lui.