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Ciclismo, addio a Federico Bahamontes, Aquila di Toledo: l'eredità del fuoriclasse spagnolo

Scalatore fine, purissimo, forse il primo vero specialista della storia, benché prima di lui i Bartali, i Coppi, i Gaul in salita facevano la differenza. A 95 anni è passato a miglior vita

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Roberto Barbacci

Roberto Barbacci

Giornalista

Giornalista (pubblicista) sportivo a tutto campo, è il tuttologo di Virgilio Sport. Provate a chiedergli di boxe, di scherma, di volley o di curling: ve ne farà innamorare

C’è un’aquila sopra Toledo che ha deciso di spiccare definitivamente il volo. Forse perché per Federico Bahamontes ormai non c’erano più montagne in grado di sopportarne la leggiadria con le quali le scalava: a 95 anni il fuoriclasse spagnolo ha deciso di passare a miglior vita, e l’ha fatto davvero librandosi in volo, lui che nella vita da ciclista chissà quante volte s’è voltato dietro di sé e ha visto il vuoto, perché nessuno riusciva a tenergli le ruote.

Scalatore fine, anzi purissimo, forse il primo vero specialista della storia, benché prima di lui i Bartali, i Coppi, i Gaul e via dicendo in salita sapevano eccome fare la differenza. Ma Bahamontes era diverso: per lui la sofferenza era rappresentata da una tappa pianeggiante, senza alcun dislivello rilevante, di quelle che in giro se ne vedono a iosa, ma che nulla hanno a che vedere col fascino delle montagne.

La leggenda sul Puy de Dome

Tanto che la tappa che più di tutte è rimasta nell’immaginario collettivo e che l’ha reso immortale arrivava sul Puy de Dome, una salita riscoperta soltanto quest’anno dal Tour de France (mancava addirittura dal 1988), una di quelle che non fanno troppi complimenti a chi le affronta.

L’Aquila di Toledo su quella cima costruì la vittoria più importante di un’intera carriera, consegnandosi alla leggenda.

Federico, all’anagrafe Alejandro Martin

Federico in realtà si chiamava Alejandro Martin, ma il mondo l’ha conosciuto appunto con un altro appellativo. Soprattutto però ne ha tramandato la straordinaria eredità per le gesta compiute in salita, primo atleta di sempre a conquistare per 6 volte la maglia a pois riservata ai migliori scalatori del Tour (nel 2004 Richard Virenque avrebbe ritoccato il record a quota 7).

La classifica della montagna gli ha sorriso due volte alla Vuelta e una al Giro d’Italia, benché è stato il Tour a dargli la gloria immortale in virtù della straordinaria vittoria del 1959, quando da under dog sbaragliò una nutritissima concorrenza rifilando 4’ a d Anglade e 50’ ad Anquetil.

Lo sgarbo che i francesi non hanno digerito

Ai francesi quello sgarbo proprio non andò giù: non potevano sopportare l’idea che uno spagnolo dall’andatura penzolante, stilisticamente tutt’altro che impeccabile, potesse sottrarre agli idoli del popolo transalpino quella maglia gialla che già da tempo italiani, belgi, svizzeri e lussemburghesi avevano portato al di là dei confini d’Oltralpe.

Di più: Bahamontes quell’anno correva con la Tricofilina-Coppi, la squadra che aveva proprio il Campionissimo tra i direttori sportivi al seguito della corsa. Per Fausto, che pochi mesi dopo sarebbe scomparso per via della famosa malaria contratta in Africa e curata male in Italia, quel trionfo segnò l’ultimo lascito al mondo del pedale, in una sorta di passaggio del testimone tra fuoriclasse.

Il migliore di tutti

Quel Tour del 1959 fu per Bahamontes l’apice di una carriera durata 14 anni, condita da 74 vittorie e da numerosi attestati di stima. A Parigi sarebbe salito altre due volte sul podio, e sempre nella parte conclusiva della carriera: nel 1963 fu Anquetil a prevalere al termine di un duello serrato in salita, ma risolto a favore del francese grazie alle due cronometro studiate dagli organizzatori.

Nel 1964, edizione indimenticabile per via del grande duello tra Anquetil e Poulidor, Federico arrivò terzo, primo degli “umani” dietro coloro che amavano spartirsi il tifo dei popolo francese.

L’eredità di Bahamontes

In precedenza, nel 1957, l’Aquila di Toledo chiuse la Vuelta al secondo posto dietro il connazionale Lorono, mentre al Giro l’unico dei che lo videro concludere le 21 tappe previste (quello del 1961) lo vide chiudere lontano dalla top 10.

Ma l’eredità di Bahamontes è andata ben oltre i risultati ottenuti su strada: nel 2013, anno in cui il Tour festeggiò la 100esima edizione, una votazione promossa da L’Equipe lo elesse miglior scalatore della grand boucle di tutti i tempi, davanti anche a quel Virenque che a inizio millennio gli portò via il record di maglie a pois conquistate in carriera.

Bravo Richard, ma non troppo

Federico, senza peli sulla lingua, nel ringraziare i giornalisti per il premio ricevuto pensò bene di alzarsi nuovamente sui pedali e fare il vuoto dietro di se:

Se Virenque è uno scalatore, io allora sono Napoleone Bonaparte.

Come a dire: bravo Richard, ma non sarai mai al mio livello. Forse l’unico paragone che poteva reggere era quello con Pantani, e semmai con Charlie Gaul, che fu decisivo nelle ultime tappe del Tour 1959 (che il lussemburghese affrontava da campione in carica) per consentirgli di rispedire al mittente il minaccioso ritorno di Anglade e Anquetil.

Scalatori per vocazione, gente che aspettava la salita per mostrare al pubblico di che pasta erano fatti. Altro che watt, altro che computer sul manubrio: Bahamontes era solo gambe, cuore e resistenza.

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