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Il Tour di Marco Pantani: 27 luglio 1998, assolo sul Galibier e ingresso nella leggenda

Tutti ricordiamo dove eravamo quel pomeriggio di fine luglio: incollati alla tv, con l’orecchio alla radio, in qualche bar sulla spiaggia. Non c’era internet ma la voglia di sentirsi parte di qualcosa di grande

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Roberto Barbacci

Roberto Barbacci

Giornalista

Giornalista (pubblicista) sportivo a tutto campo, è il tuttologo di Virgilio Sport. Provate a chiedergli di boxe, di scherma, di volley o di curling: ve ne farà innamorare

A uno come Marco Pantani, che è nato a due passi dal mare, innamorato della montagna quando però c’è da scalarla con una bicicletta, tutta quella pioggia caduta sin dalle prime ore del mattino deve aver avuto lo stesso effetto di una coltellata. Non amava quel tempo da lupi, semplicemente perché in riva al mare si respira tutta un’aria diversa, leggiadra e al tempo stesso ipnotica.

Il mare però quei giorni era distante, geograficamente e meteorologicamente. Cominciava l’ultima settimana di un Tour de France di per sé già sfiancante, dove più che dei rivali per la lotta alla vittoria di tappa o per la conquista della maglia gialla c’era da stare attenti ai blitz della gendarmeria francese, decisa a smascherare il giro di doping che s’annidava ai vertici del ciclismo professionistico.

25 anni fa, come fosse adesso

Così a fare notizia, più della scontata riconferma in giallo di Jan Ullrich, erano piuttosto le irruzioni delle forze dell’ordine nelle camere dei ciclisti, o peggio ancora le indagini fatte andando a pescare medicinali o chissà quali altre sozzerie nei cassonetti dell’immondizia. Quel Tour del 1998 era già maledetto, e forse soltanto un uomo poteva redimerlo e salvarlo. Un uomo che veniva dal mare, nato il 13 gennaio 1970, al quale il destino aveva dato appuntamento in una giornata di tuoni, fulmini, vento e pioggia. Come fosse adesso, 25 anni fa. Come fosse ora, quel 27 luglio 1998.

Davide contro Golia

Al mattino a Grenoble, sede della partenza della 15esima tappa, Marco Pantani sapeva di trovarsi di fronte a un bivio. Con 3’ abbondanti da recuperare su Ullrich, soltanto con un numero a metà tra leggenda e follia avrebbe potuto ribaltare la corsa.

Il tedesco qualche piccolo segnale di cedimento l’aveva mostrato dopo aver dominato senza indugio la prima settimana, chiusa con la cronometro di 58 chilometri dominata a Correze. Nella tappe di Luchon e Plateau de Beille qualcosa aveva lasciato, ma il vantaggio era comunque notevole nei confronti degli scalatori, pensando poi che nella penultima tappa ci sarebbe stata un’altra cronometro amica (52 km) fatta su misura per rimediare ad eventuali sventure pregresse.

Ai -4 km dal Galibier

Insomma, sul bis del capitano della Telekom nessuno nutriva dubbi, e quel tempo da lupi sembrava aumentare ancor più la sensazione che nessuno si sarebbe lanciato in azioni avventurose e solitarie. Fino a una cinquantina di chilometri dal traguardo, trascorsi cioè 140 dall’inizio della tappa, il copione venne rispettato alla perfezione.

Ma ai -4 dalla vetta Galibier, la storia moderna del ciclismo stava per essere riscritta come nessun uomo aveva fatto prima. Era giunta l’ora in cui Davide (Pantani) attaccava frontalmente Golia (Ullrich), quasi un atto di lesa maestà pensando a quel Tour disegnato su misura per chi amava le corse contro il tempo. Ma che arriverà a odiare quella tappa pirenaica al punto da non riuscire più a riprendersi per il cazzotto preso in faccia.

Uno scatto nella tempesta

Pantani fece una cosa semplice, almeno per lui: mise le mani basse sul manubrio, si alzò sui pedali e diede un colpo secco, deciso a partire. Scena vista e rivista chissà quante volte, anche qualche giorno prima nelle frazioni di montagna che chiusero la seconda settimana.

Ullrich non si aspettava una rasoiata tanto potente, soprattutto perché con 50 chilometri ancora da percorrere la logica avrebbe suggerito che un attacco sarebbe potuto arrivare sull’ultima salita, non certo così distante dal traguardo. Lo vide risalire sulla sua destra, provò istintivamente a chiuderlo verso il bordo della strada, ma senza alcuna velleità di impedirgli di andare.

Non ebbe la forza, non ebbe il modo

Non ebbe la forza e tantomeno il modo di rispondere, quasi come se di colpo la luce si spegnesse nella sua testa.

Non ebbe nemmeno la lucidità di capire che in una manciata di minuti appena avrebbe visto evaporare tutti i suoi sogni di gloria. Perché Marco intuì che quella era l’ora di andare: provò a portare con se Luc Leblanc, discreto scalatore, vincitore 4 anni prima del mondiale disputato ad Agrigento, nel cuore della valle dei templi.

Il francese era uno dei pochi in gruppo ad essere realmente convinto che Pantani avrebbe potuto ribaltare il Tour, tanto da affermarlo pubblicamente solo 48 ore prima. Provò a stargli dietro ma resistette poco, anche perché ogni volta che Pantani si alzava sui pedali faceva il vuoto dietro di sé.

E così facendo andava a riprendere i fuggitivi della prima ora, saltandone ad uno ad uno con irrisoria facilità. Ullrich nel frattempo si era letteralmente ingolfato: Bjarne Riis e Ugo Bolts, dopo che avevano perso contatto lasciando solo il loro capitano a metà del Galibier, provavano a fargli il passo, ma le gambe non rispondevano. O meglio, la testa diceva loro di non andare.

Lucido fino alla fine

Alla vigilia della tappa, Pantani era stato lapidario:

Il Tour lo vincerà Ullrich, lui lo ha preparato per tutta la stagione, io invece sono arrivato qua quasi per caso. Di montagne per fare la differenza ormai ce ne sono poche, e senza la Festina (esclusa per lo scandalo doping) non ci sono mai attacchi.

Parole dettate anche dalla consapevolezza che il tedesco sino a quel momento si era difeso benone: nelle due tappe pirenaiche aveva lasciato poco più di un minuto, e con la crono della penultima tappa poteva dormire sonni tranquilli.

In cima al Galibier però, appena 4 chilometri dopo averlo staccato, Marco aveva praticamente azzerato i 3’ di ritardo. E in discesa Ullrich dovette pagare dazio anche a una foratura, perdendo un’altra trentina di secondi.

È una mazzata tremenda per il Kaiser, che stava recuperando un po’ di terreno dopo aver scollinato in preda ai nervi e alla fatica. Pantani è lucidissimo: per indossare la mantellina preferisce fermarsi, evitando di incorrere in guai peggiori.

Poi in discesa cerca di non commettere errori, pur se le mani sono prossime a congelarsi. Sull’ultima salita ormai c’è solo da alleviare la fatica: va su come un treno, nessuno gli resiste, e la rabbia che sente salire sul suo corpo diventa adrenalina allo stato puro.

Ullrich invece è alla deriva: al traguardo pagherà quasi 9’ di ritardo, alla media di più di 10 secondi al chilometro persi rispetto a Pantani. A fine tappa si ritrova addirittura fuori dal podio, ma ha la forza e l’onestà di ammettere che ha vinto il più forte. Con Marco erano e saranno amici fino alla fine. E se proprio da qualcuno doveva perdere, bene che sia stato lui a batterlo.

Parole nate dal cuore

Marco sul podio è spaesato, incredulo e felice, certamente stupito dall’impresa appena realizzata. Dirà ai microfoni Rai pochi minuti dopo la premiazione:

Non pensavo di poter guadagnare così tanto. È venuta fuori un’azione incredibile, difficile anche solo da ipotizzare. Alla fine ho vinto sempre alla solita maniera, cioè arrivando da solo: non sarò diventato monotono?

si chiede con tono scherzoso. Poi arriva la dedica:

Quando ero seduto in chiesa al funerale di Luciano Pezzi, e tutti mi dicevano di andare al Tour, mi interrogavo su cosa avrei potuto fare per omaggiarne la memoria. Ma mi dicevo anche che cosa ci andavo a fare in Francia, dato che avevo speso tantissimo per vincere il Giro. Ecco, direi che strada facendo ho dato un senso a quelle domande che mi ronzavano in testa. E sono sicuro che da lassù Luciano abbia gioito per me e per questa vittoria.

I due minuti e mezzo che pagherà a Ullrich nella crono conclusiva serviranno solo a riportare il tedesco sul podio, ma non a detronizzare Marco. Che sul Galibier, e poi sulle rampe che lo portarono a Les deux Alpes, quel 27 luglio 1998 scrisse la pagina più bella del ciclismo moderno.

Perché tutti si ricordano dov’erano quel pomeriggio di fine luglio, chi incollato alla tv, chi con l’orecchio alla radio, chi in qualche bar sulla spiaggia a sbirciare da lontano cosa stesse succedendo. Non c’era internet, ma c’era la voglia di sentirsi parte di qualcosa di grande. L’eredità più bella lasciata da Pantani su questa terra.

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