Marco Pantani aveva trionfato da poco: sua la vittoria del Giro d’Italia del 1998. Il Pirata s’è messo alle spalle la sfortuna. Il capitolo, ora, è un altro. Parla del grande riscatto di uno degli sportivi che l’Italia ha imparato ad amare un infortunio alla volta, una scalata dopo l’altra, bandana su bandana. Pochi te ne ricordi con l’estensione del sorriso di Pantani. Che, però, non ne concedeva molti.
Se c’è un mese nel quale la bicicletta ha preso più polvere del solito, certamente quello è giugno di quell’anno. Perché dopo 3.000 e passa chilometri percorsi in lungo e in largo per l’Italia, la voglia di far festa era davvero troppa, considerando che nel frattempo nella vetrina di casa a Cesenatico era comparsa una maglia rosa tanto bella e desiderata, quanto abbagliante e densa di significati.
- A una settimana dalla fine, la Rosa distava 4'
- Le crono, la moda del tempo
- Gli anni di Indurain, poi quelli di Ullrich
- Poi, improvvisa, la morte di Luciano Pezzi
- Una promessa va onorata, sempre
- L'avvio al Tour, uno shock
A una settimana dalla fine, la Rosa distava 4′
Se a mamma Tonina o a papà Paolo avesse raccontato solo una manciata di giorni prima che quella maglia sarebbe finita nel salotto di casa, probabilmente avrebbero scosso la testa ancor prima di rispondere: a una settimana esatta dalla fine del Giro, dopo la cronometro di Trieste, la rosa era lontana 4’, gestita a dovere da uno svizzero di nome Alex Zulle che quando c’era da fare una corsa contro il tempo non ammetteva rivali.
Addirittura nella crono incriminata si fece beffe di quel romagnolo con la testa pelata, partito 3’ prima dal palco delle partenze, superato a una manciata di chilometri dall’arrivo. Psicologicamente, come un montante sferrato in pieno volto, senza alcuna guardia a difesa. Un ko. tecnico, pure senza appello.
Le crono, la moda del tempo
Ecco, le crono nella vita di Marco Pantani sono state soltanto una croce, e mai (o assai raramente) delizia. Le dolomiti gli sarebbero servite per ricacciare indietro l’immagine del sorpasso subito da parte di Zulle e andare a conquistare quella maglia rosa che pareva stregata, dopo annate segnate da cadute, infortuni e sfortuna.
Quel Giro d’Italia vinto con 93 secondi di vantaggio su Pavel Tonkov di chilometri a cronometro ne prevedeva complessivamente 81. Il Tour che si sarebbe corso cinque settimane più tardi, eccezionalmente spostato un po’ più in là per esigenze di calendario (in Francia il 12 luglio terminava il campionato del mondo di calcio, vinto dai Blues in finale sul Brasile), addirittura arrivava a contare 114 chilometri contro il tempo.
A chi mai sarebbe venuta voglia di tentare l’azzardo e rischiare di farsi stritolare da fior di specialisti, pronti a fare un sol boccone dei tanti scalatori sparsi in gruppo?
Gli anni di Indurain, poi quelli di Ullrich
La moda dell’epoca, però, non ammetteva deroghe: gli anni ’90 sono stati per metà quelli di Miguel Indurain, che a cronometro costruì le 5 vittorie di fila al Tour dal 1991 al 1995 (e le due al Giro nel biennio ’92-’93), e dall’altra metà in poi quelli di Jan Ullrich, buon scalatore ma soprattutto favoloso crono man, vincitore in Francia nel 1997.
Tutti sognavano di vedere il duello con Pantani, già ammirato nelle edizioni precedenti, ma tutto lasciava presagire che il Pirata avrebbe avuto solo e soltanto da perdere. Anche perché la bici, in quel giugno del 1998, prese davvero polvere in garage.
Poi, improvvisa, la morte di Luciano Pezzi
Quando le luci delle feste in spiaggia o nelle discoteche della Riviera stavano per spegnersi, ecco che improvvisa il 26 giugno arrivò la notizia che nessuno avrebbe voluto ascoltare: Luciano Pezzi, ex gregario di Coppi e direttore sportivo di Gimondi e Moser, artefice assieme a Romano Cenni della nascita della Mercatone Uno, la squadra deputata anima e corpo a far prendere vita ai sogni di grandeur di Pantani, aveva deciso di lasciare questo mondo.
Il diesse Beppe Martinelli era andato a trovarlo di buon mattino, con un regalo davvero particolare: la maglia gialla appena conquistata da Stefano Garzelli al Giro di Svizzera, come da promessa fatta al telefono la sera precedente.
Sapeva che Pezzi era ricoverato al Sant’Orsola di Bologna da qualche giorno, e infatti l’accordo era che avrebbe lasciato il cadeau alla moglie. Ma nonostante suonò più volte il campanello, nessuno rispose: Luciano era deceduto poche ore prima, e la notizia arrivò veloce a Cesenatico. Dove toccò a papà Paolo comunicarla a Marco. Che pianse amaramente, ricordando la “promessa” fatta a Pezzi qualche giorno prima.
Una promessa va onorata, sempre
Perché Luciano gli aveva chiesto di andare al Tour e di fare come Gimondi nel 1965, guarda a caso l’ultimo italiano ad essere arrivato in giallo a Parigi:
Ho visto Ullrich in tv, se a cronometro ti darà 5 minuti, tu potrai dargliene 10 in salita.
Marco voleva solo andarsene in vacanza e in quei giorni tanto particolari gli garantì che c’avrebbe pensato su, ma una volta saputo della scomparsa comprese di dover correre in Francia per onorare la memoria di quello che considerava un secondo padre.
L’avvio al Tour, uno shock
Quello stesso giorno, dopo aver annullato l’ennesima cerimonia prevista in Comune a Cesenatico, Marco decise di riprendere a pedalare. Nelle due settimane successive non prese parte ad alcuna gara: allenamenti, a volte senza nemmeno una meta, un modo per tenere libera la testa da troppi pensieri.
Quel Tour, per sua stessa ammissione, non gli piaceva per niente: a Dublino, sede di partenza delle prime tre tappe (per evitare il caos in Francia con i mondiali), si presentò in conferenza stampa smorzando subito gli entusiasmi.
Non è la mia corsa, ci sono più di 100 chilometri a cronometro e io nell’ultimo mese sarò uscito una decina di volte al massimo. Sono qui solo per onorare il mio amico Luciano Pezzi, ma non chiedetemi di vincere.
L’animo è a pezzi, il morale è basso. Nel prologo, in poco meno di 6 chilometri, Chris Boardman gli rifila 48 secondi, Ullrich 43. Marco è l’ombra di se stesso, arriva al traguardo scuotendo la testa, maledicendosi per aver accettato di imbarcarsi in una sfida tanto improvvida, quanto scellerata.
Almeno però i giornalisti capiranno che non dovranno considerarlo il rivale del tedesco per la maglia gialla. Cinque settimane dopo gli onori ricevuti in rosa a Milano, il mondo s’era capovolto. E non lasciava presagire nulla di buono.