Dario Bonetti è stato un difensore dal grande carisma e molto forte fisicamente. Un palmares molto ricco il suo, con quattro successi in Coppa Italia con Roma e Juventus, una Supercoppa Italiana con la Sampdoria e una Coppa Uefa con le zebre bianconere. In carriera vanta 358 presenze con 11 reti, di cui una segnata nella stagione 1990-1991 sempre con la Juve in Coppa delle Coppe ai bulgari dello Sliven.
Si ricorda come è iniziata la sua carriera calcistica?
“All’inizio giocavo come mediano in una formazione del rione che si chiamava la Leonessa vicino casa, andavo ad allenarmi in bicicletta. Fui visto nel corso di un provino e passai al Brescia, dove vinsi un campionato di serie B per, poi, passare alla Roma”.
Che persona era Nils Liedholm?
“Era il Guardiola di oggi: il numero uno in assoluto. Mi ricordo tanti aneddoti di quegli anni. Lui con la sua semplicità riusciva ad aprirti un mondo. Perché sono importanti i tecnici che semplificano no quelli che fanno il contrario”.
Le ricordo una data: 30 maggio 1984.
“La serata della finale all’Olimpico di Coppa dei Campioni contro il Liverpool, una gara funesta per me. Me la ricordo ancora oggi quella partita e non ho più voluto rivederla. Nelle due settimane precedenti alla finale, dopo che era terminato il campionato andammo in ritiro per quindici giorni in montagna. Poi, gli allenamenti a Roma tre-quattro giorni prima che ci portarono alla finale. Il Liverpool andò a giocare, invece, tre amichevoli importanti all’estero, con le famiglie che seguirono i calciatori”.
In quella Roma c’era Falcao.
“Una persona straordinaria e un fuoriclasse. Un leader silenzioso”.
Quindi arriva l’esperienza alla Sampdoria.
“Non fu difficile adattarmi al gioco a uomo, dopo che a Roma avevamo quello a zona. Fu anche il primo anno che arrivò Roberto Mancini a Genova, aveva diciassette anni ma già si vedeva la sua classe. Era molto determinato con le idee chiare. E’ stato, poi, un grande calciatore e ha dimostrato di essere anche un grande tecnico, con personalità. Dal punto di vista umano è stato sempre molto sensibile”.
Nella stagione 1989-1990 arriva la vittoria in Coppa Uefa con la Juventus.
“Giocammo la gara di ritorno contro la Fiorentina di Baggio ad Avellino finì 0-0, mentre, all’andata vincemmo 3-1. Noi eravamo globalmente superiori alla formazione viola. In panchina c’era Dino Zoff, anche lui bravissimo nel semplificare tutto e a leggere le partite. Personalmente da ogni allenatore che ho avuto nella mia carriera di calciatore ho carpito qualcosa. Chi cresce con un tecnico come Liedholm, ad esempio, riesce ad avere un grande rapporto, poi, con i giocatori. Lui ci faceva anche accademia nel corso degli allenamenti perciò è una formazione tecnica continua. E’ chiaro che un conto è allenare una grande squadra per vincere e un altro è quello di dover oltre vincere anche dare un contributo di crescita ai calciatori”.
In quella Juventus c’era Zavarov.
“Zavarov come qualità non era affatto inferiore a Platinì. Era diverso nel rendimento ma rimane uno dei giocatori più forti che abbia visto. Lui sul piano fisico e su quello tecnico era straordinario”.
Quale è la partita che ricorda con più piacere.
“Io ho vissuto tante soddisfazioni, è difficile ricordarne una perché hanno tutte un sapore diverso. Però posso dire che vincere a Torino è normale, mentre, a Roma è più complicato farlo perché c’è molta più passione e pressioni da parte della tifoseria. Ho perso due finali di Coppa dei Campioni, oltre a quella con la Roma c’è anche quella quando militavo con la Sampdoria nel 1992 quando fummo sconfitti per 1-0 dal Barcellona a Wembley con una rete di Koeman nei tempi supplementari. Queste sono gare che ti segnano. Quando vinci la Coppa dei Campioni cambia anche lo status del giocatore”.
Quale è la sua rete che ricorda di più?
“La prima che ho realizzato in serie A esattamente l’11 marzo del 1984 al San Paolo di Napoli, oggi Maradona. Misi a segno il goal che ci permise di vincere per 2-1 dopo che noi eravamo passati in vantaggio con Graziani e il Napoli pareggiò con Casale. Poi, intorno al 62’ ricevetti palla sulla sinistra e scesi fino alla spigolo sinistro dell’area di rigore facendo partire un diagonale che trafisse Castellini andando prima a colpire il palo e, poi, finendo in rete. Quel successo ci permise di ritornare in corsa per lo scudetto. Quello era il Napoli di Krol e Dirceu”.
Quale è il suo maggior rammarico?
“Nel 1986 venni premiato nella top-undici come miglior difensore italiano, sono sincero mi aspettavo la convocazione con la Nazionale per il Mondiale in Messico cosa che, poi, non arrivò forse dovuto al fatto che nella squadra di club giocavamo a zona e gli azzurri, invece, ad uomo”.
Quindi, intraprende la carriera di allenatore tra cui l’esperienza al Sopron nel campionato ungherese.
“Lì allenai solo il girone di ritorno, conoscevo il presidente e così per due stagioni di fila ho conquistato la salvezza. In quella squadra c’erano Signori e Sartor”.
Infine, sul suo cammino c’è la Dinamo Bucarest.
“Un’esperienza che ricordo con piacere dove ho conquistato la Coppa e la Supercoppa di Romania valorizzando tantissimi giocatori che sono venuti in Europa, poi, a giocare così come pure in Italia. E’ per questo che sono tornato per la terza volta a luglio scorso anche se sono andato via”.
Pasquale Guardascione