Di talenti smarriti, il calcio italiano nella sua lunga storia ne ha visti tanti. Dal leggendario Bruno Nicolè fino a Mario Balotelli, la “promessa non mantenuta” è diventato un topos letterario molto diffuso nel giornalismo sportivo del nostro Paese. Un argomento che poi diventa particolarmente caldo in periodi in cui, come oggi, la nazionale e l’intero movimento fanno fatica ad affermare nuovi talenti. Ma anche quando c’era maggiore abbondanza di grandi giocatori c’era chi falliva rumorosamente nel rispettare le aspettative calate su di lui. Il caso di Mimmo Morfeo, da questo punto di vista, è uno dei più emblematici di sempre.
- Domenico Morfeo: il calciatore più promettente della sua generazione
- L’inizio dei problemi: Morfeo tra Fiorentina, Milan e altri
- Morfeo all’Inter: l’ultima occasione di rilancio
- Domenico Morfeo: la rinascita al Parma
- Domenico Morfeo oggi: cosa fa dopo il ritiro
Domenico Morfeo: il calciatore più promettente della sua generazione
Domenico Morfeo è nato a San Benedetto dei Marsi, vicino L’Aquila, il 16 gennaio 1976, e a 14 anni era già considerato uno dei maggiori talenti del calcio italiano. A scoprirlo furono l’osservatore dell’Atalanta Bixio Liberale e Mino Favini, il responsabile del settore giovanile orobico, che decisero subito di portarlo a Bergamo. Lì, in pochi anni il talento abruzzese fece vedere cose incredibili, bruciando le tappe nelle varie graduatorie della Dea, tanto che nel dicembre 1993, a soli 17 anni, arrivava già a esordire in prima squadra in Serie A.
Al termine di quell’annata, nonostante la retrocessione dei nerazzurri in B, Morfeo segnò 3 reti e si conquistò un ruolo di primo piano nella formazione titolare. L’anno seguente, il suo minutaggio aumentò, e il suo apporto fu decisivo al ritorno dell’Atalanta nella massima serie italiana. Alla prima stagione da titolare in Serie A, a nemmeno 20 anni, Morfeo fu l’assoluto trascinatore della squadra allenata da Emiliano Mondonico fino a una comoda salvezza e alla finale di Coppa Italia, segnando in tutto 12 gol.
Nello stesso anno divenne un elemento importante della rosa dell’Italia U21 guidata da Cesare Maldini, che nel 1996 conquistò l’Europeo di categoria. Una generazione piena di talento, in cui figuravano nomi come Christian Panucci, Fabio Cannavaro, Alessandro Nesta, Francesco Totti, Damiano Tommasi e Gigi Buffon. Tra tutti questi, però Domenico Morfeo spiccava per talento e fantasia, con il solo Totti a contendergli il ruolo di stella di quella formazione.
Per chi non lo ha visto in campo, è bene spiegare che tipo di giocatore Morfeo fosse, a questo punto. Trequartista classico a vedersi, dal raffinato piede sinistro e dal fisico brevilineo, la stampa già lo paragonava a Roberto Baggio, se non addirittura a un possibile erede di Maradona. E il fatto è che in campo il giovanissimo Domenico Morfeo faceva di tutto per legittimare quei confronti così prestigiosi. La sua tecnica era eccellente, e aveva un grande senso tattico che gli permetteva di giocare anche sull’ala, sia a destra che a sinistra. Nell’attacco dell’Atalanta era un vero leader, capace sia di segnare (come abbiamo visto nella stagione 1995/1996) sia di far segnare, servendo assist perfetti ai compagni. Non è un caso che la vera annata d’oro della promessa abruzzese fu in realtà quella seguente, quando si fermò a soli 5 gol ma consacrò coi suoi passaggi il fiuto realizzativo di Filippo Inzaghi, facendolo diventare capocannoniere della Serie A.
L’inizio dei problemi: Morfeo tra Fiorentina, Milan e altri
Per lui arrivò dunque il momento del salto di qualità, passando finalmente a una delle grandi della Serie A. La scelta ricadde sulla Fiorentina di Cecchi Gori, che nell’estate del 1997 versò 8,5 miliardi di lire all’Atalanta per portarglielo via. La squadra viola, all’epoca, era uno degli ambienti più ambiziosi e interessanti del calcio italiano, ed era stata affidata a un giovane e promettente allenatore reduce da alcune ottime stagioni in Serie B col Chievo, Alberto Malesani. Tuttavia, lo spazio in attacco era molto ridotto: il fronte offensivo era composto dal portoghese Rui Costa sulla trequarti, dietro alle due punte Gabriel Omar Batistuta e Luis Oliveira.
Morfeo era un giocatore preso per fare da vice a Rui Costa, soprattutto dopo che la società aveva deciso di non dare ulteriore fiducia al discontinuo Francesco Flachi. Ma seppe giocare bene le sue carte e, alla fine, convinse Malesani a promuoverlo a titolare per giocare accanto al portoghese con un doppio trequartista alle spalle di Batigol. A gennaio, però, ancora il suo ruolo venne messo in discussione, nonostante le buone prestazioni: la Fiorentina acquistò dal Vasco da Gama Edmundo, e il presidente Cecchi Gori lo volle di punta con Batistuta. Erano gli anni dei presidenti vulcanici e ingombranti della Serie A, e lo stesso Morfeo confermò in seguito che a Firenze c’erano forti pressioni per far giocare Edmundo.
A fine anno, deluso, chiese la cessione e venne così prestato al Milan, ma di nuovo la scelta non si rivelò particolarmente felice. Morfeo scelse i rossoneri perché voleva restare nel giro dei top club italiani, giocandosi le sue opportunità ad alto livello, ma la verità è che il Milan dell’epoca aveva ben poco bisogno di lui. L’allenatore Alberto Zaccheroni era un fautore del modulo 3-4-3, per cui senza un trequartista: Morfeo dovette dunque adattarsi a giocare da esterno d’attacco, in una posizione in cui le sua abilità erano poco congeniali al gioco di Zac. Inoltre, tra i rossoneri non solo non partiva titolare, ma neppure come prima riserva: davanti a lui, nelle gerarchie della rosa, c’erano di sicuro Bierhoff, Weah, Boban e Leonardo.
La stagione si concluse con la vittoria dello scudetto, ma il suo apporto fu minimo. A 22 anni, Domenico Morfeo non era ancora riuscito a lasciare il segno in una squadra di prima fascia né aveva mai ricevuto una convocazione in nazionale. Le cose, per lui, iniziavano a farsi complicate, e da talento precoce si trovava ora indietro rispetto ad altri suoi coetanei. Tutto ciò contribuì alla crescente mancanza di fiducia e indolenza in campo, aggravata a sua volta dal fatto di essere snobbato dalla Fiorentina e parcheggiato ripetutamente in squadre di secondo piano. Morfeo passò, senza lasciare traccia, dal Cagliari (dov’era chiuso da Fabian O’Neill), quindi si trasferì al Verona. Qui visse un piccolo miglioramento, grazie all’influsso positivo di Cesare Prandelli, che lo aveva allenato nelle giovanili dell’Atalanta.
Ma alla Fiorentina, nel frattempo allenata da Fatih Terim, ancora non ebbe alcuna chance, e a gennaio 2001 fu rimandato là dove era iniziata la sua ascesa al calcio italiano, all’Atalanta. In una squadra giovane e ben gestita da Giovanni Vavassori, Morfeo poteva finalmente tornare a brillare nella sua condizione ideale. Posizionato in campo dietro a Nicola Ventola e Maurizio Ganz, sembrò recuperare nuovamente la fiducia perduta. Era così pronto a riconquistarsi la Fiorentina, con Roberto Mancini che, partito Rui Costa, gli mise sulle spalle la maglia numero 10. Ma a Firenze le cose andavano già molto male: la società era piena di debiti e aveva venduto i suoi giocatori migliori; la squadra era poco equilibrata e psicologicamente insicura per i problemi economici del club. L’annata fu un disastro, e Morfeo si perse in quella confusione, mentre la Fiorentina retrocedeva e, poi, dichiarava bancarotta.
Morfeo all’Inter: l’ultima occasione di rilancio
Svincolato, Domenico Morfeo aveva l’occasione per ricominciare da capo, a 25 anni, scegliendo liberamente una nuova destinazione. Massimo Moratti, da sempre innamorato dei talenti purissimi e romanticamente discontinui, venne a bussare alla sua porta per chiamarlo all’Inter. I nerazzurri avevano sfiorato lo scudetto l’anno prima, e ora volevano rifarsi, acquistando alcuni dei migliori giocatori in circolazione. Partito Ronaldo, erano arrivati Crespo, Cannavaro, Coco, Adani e Almeyda, e le ambizioni erano alte. Ancora una volta, a Morfeo venne affidata la maglia numero 10: un numero che era una promessa di fiducia.
Peccato che anche all’Inter Morfeo fosse fin da subito un pesce fuor d’acqua, innanzitutto a livello tattico. Hector Cuper, l’allenatore dei nerazzurri, giocava con il modulo 4-4-2, che ovviamente non contemplava il trequartista. L’abruzzese doveva quindi nuovamente adattarsi, o giocando da esterno (ma, come per Zaccheroni, le sue caratteristiche erano troppo atipiche per essere l’ala ideale del tecnico argentino) o da interno di centrocampo, fondamentalmente da regista. Un nuovo ruolo, di cui peraltro i nerazzurri erano sprovvisti, rappresentava la carta principale per rilanciarsi, in maniera simile a come Ancelotti aveva fatto al Milan con Andrea Pirlo (altro promettente trequartista fallito, trasformatosi egregiamente in regista).
Il rapporto con Cuper non fu mai ideale – Morfeo all’Inter era arrivato chiaramente per volontà di Moratti e non dell’allenatore – ma il centrocampista classe 1976 ebbe le sue occasioni e riuscì anche a sfruttarle bene. Lontano com’era dalla porta, il suo gioco era cambiato e non sempre riusciva a incidere come un tempo in termini offensivi, ma non fu affatto deludente, e anzi trovò modo di segnare la prima rete in Champions League, contro il Newcastle.
Poi, tutto andò a rotoli. Ai quarti di finale di Champions League contro il Bayer Leverkusen, l’Inter si vide assegnare un rigore: avrebbe dovuto batterlo Emre Belozoglu, ma Morfeo s’impuntò che spettava a lui, e alla fine ebbe la meglio; tirò, ma il portiere dei tedeschi parò. Le immagini del litigio tra i due giocatori nerazzurri su chi dovesse tirare il penalty non piacquero a Cuper, che poco dopo sostituì l’italiano. Da lì in avanti, il suo impiego si ridusse notevolmente, e a fine stagione la separazione tra Morfeo e l’Inter fu inevitabile.
Domenico Morfeo: la rinascita al Parma
Nuova esperienza al Parma, in quella che poi sarebbe divenuta la squadra in cui si è trovato meglio, trascorrendo in Emilia ben cinque stagioni, tutte in Serie A. L’anno prima, i gialloblu avevano avuto un’ottima stagione con una spettacolare coppia d’attacco composta da Adrian Mutu e Adriano, ma in estate il rumeno si era trasferito al Chelsea, e serviva un nuovo giocatore al suo posto. Morfeo non era esattamente il profilo tattico ideale – più centrocampista che seconda punta – ma Prandelli, che aveva sempre avuto un debole per lui, volle scommetterci sopra di nuovo.
Ancora una volta si ritrovò con la maglia numero 10, con l’unico allenatore che sembrava averlo sempre capito. Ma ancora una volta, quando le cose sembravano andare dalla parte giusta, la sfortuna ci mise lo zampino. Dopo Firenze, anche a Parma Morfeo si ritrovò in una squadra con enormi problemi economici, legati a quello che sarebbe poi divenuto noto come Crac Parmalat. A gennaio Adriano era tornato all’Inter, e come prima punta era esploso Alberto Gilardino, anche grazie agli assist dell’abruzzese.
L’anno successivo, senza più Prandelli in panchina, si rivelò in realtà quello dell’avvenuta maturità di Domenica Morfeo come giocatore di calcio, anche se non più a livelli che gli erano stati pronosticati da giovane. Con la squadra in subbuglio e la società in difficoltà, si impone come leader tecnico in campo, arrivando a segnare 8 gol in totale: la sua miglior prestazione realizzativa dal 1995/1996 all’Atalanta.
Il suo apporto fu decisivo per la salvezza del Parma, e continuò a esserlo anche nelle stagioni successive, anche invecchiando e nonostante le cessioni periodiche dei migliori elementi della rosa. Nel 2007/2008, infine, l’annata peggiore, più per la squadra in generale che per lui: solo 12 presenze, complici anche gli infortuni e l’approdo (per un breve periodo) di Cuper in panchina. Penultimo in Serie A, per il Parma arrivò infine la retrocessione.
Morfeo scese in B, ma cambiando squadra e passando al Brescia, dove però non si vide quasi mai, e a gennaio scese nuovamente di categoria per giocare una manciata di partite nella Cremonese, dove ritrovò Mondonico. Nel 2010, dopo circa un anno di stop, tornò a giocare a 34 anni in Seconda Categoria (la quinta serie italiana) nella squadra del suo paese natale, chiudendo con 19 reti in 22 presenze, prima di ritirarsi definitivamente.
Domenico Morfeo oggi: cosa fa dopo il ritiro
Tanto appariscente in campo, nel bene o nel male, quanto abbastanza schivo fuori, Domenico Morfeo non ha mai parlato molto della sua vita privata. Sappiamo però che, dopo aver lasciato il calcio giocato, ha completamente abbandonato l’ambiente, diventando un piccolo imprenditore.
Nel 2015, nel suo natio Abruzzo, ha aperto un centro commerciale, lo Shopping Park Ten ad Avezzano, a pochissimi chilometri da San Benedetto dei Marsi. Vive ancora a Parma, la città a cui ha legato il periodo più stabile della vita da calciatore, dove ha aperto il ristorante Dolcevita, nel centro della città emiliana e a non troppa distanza dallo stadio Ennio Tardini.