Il calcio argentino – ma quello sudamericano più in generale – possiede un’innata capacità di creare idiosincrasie, sia all’interno che all’esterno del proprio sistema. Il quarto di finale contro l’Olanda di van Gaal, il 9 dicembre 2022, è diventato l’occasione per ripescare dal baule delle inimicizie l’eterno conflitto tra l’interpretazione artistica del calcio alla sudamericana e il raziocinio degli allenatori europei: il singolo contro il collettivo, il talento contro il sistema.
Messi che esulta mimando il Topo Gigio di Riquelme, vittima per eccellenza dello schematismo di van Gaal, ha rappresentato la rivendicazione della propria identità contro l’egemonia dell’Europa, colpevole di rubare e poi snaturare i migliori talenti latinoamericani. Prima ancora del confronto con l’esterno, però, il dibattito calcistico argentino è stato innervato per anni da una diatriba interna, quella tra Bilardismo e Menottismo.
Bilardo e Menotti, oltre ad essere i due allenatori campioni del mondo con l’albiceleste, rappresentano due visioni del mondo e del calcio agli antipodi: ruvida, dittatoriale, pragmatica, centrata sulla solidità difensiva la prima, artistica, incline al gioco offensivo e alla cura del talento la seconda. Qualcuno ci vede persino dei risvolti politici: i bilardisti con tendenze di destra, i menottisti più vicini a idee di sinistra. Da fuori potrebbe sembrare pura teoria, ma il discorso sul gene calcistico degli argentini ha segnato spesso l’identità della Seleccion. Il giocatore che forse più di tutti ha vissuto sulla propria pelle la dicotomia
Bilardismo-Menottismo, è Fernando Redondo, calciatore storico dell’Argentina.
Il principe: chi è Fernando Redondo e la sua carriera
Fernando Redondo Neri non ha bisogno di presentazioni. È uno dei migliori registi della storia (o meglio, cinco, come chiamano il ruolo in Argentina per sineddoche col numero di maglia) e leggenda del Real Madrid, con cui ha vinto, tra le altre, due Champions League. Con la nazionale, però, non ha avuto altrettanta fortuna. Redondo, pur non avendo mai allenato, è stato tra i protagonisti delle speculazioni teoriche del calcio argentino. In Spagna si è ritrovato protagonista al Tenerife, dove è passato dalla lotta per la salvezza alla Coppa UEFA grazie a Valdano e al suo assistente Angel Cappa, due dei massimi esponenti del Menottismo.
Lo stile di gioco di Redondo ha rappresentato in pieno i codici di quella corrente, e fu lo stesso Valdano a portarlo con sé al Real Madrid nell’estate del ‘94. Redondo era un cinque, ma diverso dai registi di oggi. I playmaker odierni organizzano la squadra dalle retrovie ma, per ragioni di equilibrio, raramente si muovono lontano dalle zone di competenza. Redondo, pur partendo da regista, amava scambiare il pallone coi compagni e migrare lungo il campo a furia di triangoli, col fine di influenzare tutta la manovra. «A me piaceva attaccare. Mi piaceva andare in avanti, non ho mai guardato all’indietro», ha raccontato.
Una delle maggiori skill di Redondo era la protezione di palla in spazi angusti, ma anche il toco y me voy, il cuore del calcio argentino, la capacità di giocare a parete con i compagni tipica del potrero. Non è un caso che Cruyff, ambasciatore del gioco di posizione e della scuola olandese-catalana, che prevede un’interpretazione più disciplinata del ruolo, non lo amasse: «Non penso ci sia al mondo una squadra che a centrocampo perda più palloni del Real Madrid. Non si riescono a contare i palloni che perde Redondo», ha detto una volta.
A differenza di molti dei migliori talenti argentini, Redondo non ha dovuto affrontare un’infanzia difficile in sobborghi malfamati. È cresciuto ad Adrogué, fuori dai confini urbani di Buenos Aires, uno di quei quartieri residenziali dove si rifugia la buona borghesia al riparo dal trambusto della città. Suo padre possedeva una catena di frigoriferi, e lui ha giocato a calcio sin da bambino: a dieci anni già faceva parte delle giovanili dell’Argentinos Juniors.
Un po’ per le sue origini, un po’ per il suo modo di stare in campo, Redondo si è guadagnato presto il soprannome di Principe. Se è vero che si gioca come si vive, il portamento di Redondo col pallone ha sempre simboleggiato la sua aristocrazia: un’eleganza innata, riflessa nelle conduzioni sulle punte, con la testa sempre alta. A dargli quel tocco di grazia in più, le lunghe ciocche di capelli bagnati, che fluttuavano al ritmo dei suoi misteriosi dribbling tra i centrocampisti avversari.
Esteta in campo, testa pensante fuori, Redondo è sempre stato fedele al proprio stile, non lo ha mai negoziato. Nel ’90, ad esempio, aveva rifiutato la convocazione di Bilardo ai mondiali perché preferiva concentrarsi sull’università. «Non era sicuro che avrei giocato, si trattava appena di una preselezione, non avrei offerto un contributo importante alla squadra. È stata una decisione che ho preso pensando tra me e me: non potevo giocare nell’Argentinos Juniors, andare in nazionale e studiare contemporaneamente». Secondo le malelingue, l’università sarebbe stata solo una scusa. Dietro il rifiuto di Redondo avrebbero pesato divergenze con la visione di Bilardo. Si dice addirittura che Menotti in persona gli avesse consigliato di disertare, versione che il Principe, però, rifiuta in maniera netta.
Insomma, il dibattito tra Bilardismo e Menottismo avrebbe condizionato già all’epoca le scelte di Redondo. È nel 1998, però, che la rivalità tra le correnti finisce per pregiudicare in maniera definitiva la sua carriera in nazionale.
I capelli di Redondo e l’immagine della Seleccion
Dopo il fallimento di USA ’94, con la squalifica per doping di Maradona e l’eliminazione agli ottavi contro la Romania, la federazione argentina sceglie come CT Daniel Passarella, capitano della squadra campione del mondo nel ’78 e caudillo della difesa per eccellenza. Spigoloso in marcatura e nel carattere, di volontà ferrea, si era addirittura fatto espellere nella sua partita d’addio, un Superclasico tra il suo River e il Boca. Il Kaiser, come è facile capire dal soprannome, incarna tutti i valori del bilardismo: la gestione militaresca dello spogliatoio, l’attenzione alla difesa e la capacità di giocare sul limite del regolamento pur di vincere.
Passarella vuole mettere da subito in chiaro le sue intenzioni. Per questo, nel 1995 chiede a Redondo un incontro, in un albergo di Madrid. Discutono di calcio, di come il nuovo CT avrebbe voluto impostare la squadra. Poi, però, Passarella impone a Redondo un diktat per lui irricevibile: per continuare a giocare in nazionale, avrebbe dovuto tagliarsi i capelli. «Mi chiese in che posizione preferissi giocare. Gli dissi che mi sentivo a mio agio da cinque, nel mezzo. Però non fu questo il problema. Mi disse testualmente: “Come possiamo presentarci all’aeroporto di Francoforte con qualcuno che ha i capelli lunghi, qualcun altro con gli orecchini ed altri con i capelli tinti?».
Redondo rifiuta all’istante. Dice che i capelli fanno parte della sua personalità: «Sono un calciatore, ma prima di tutto sono una persona, e sto bene così», sono le sue parole. Passarella è più diplomatico, lo saluta dicendo di non volergli chiudere totalmente le porte dell’albiceleste, e che in caso di necessità lo avrebbe richiamato. Quando il CT dirama i convocati, i giornalisti argentini sono sorpresi dall’assenza del centrocampista del Real Madrid. Qualcuno lo contatta, e Redondo racconta dell’incontro e del rifiuto di tagliarsi i capelli alla base della sua esclusione.
Incalzato dalle telecamere sulla questione, però, Passarella non parla né di acconciature né di orecchini. A suo dire, Redondo si sarebbe rifiutato di giocare sulla sinistra. Julio Grondona, presidente della federazione argentina, lo spalleggia: «Redondo e Passarella hanno discusso in tre occasioni e il rifiuto è arrivato nell’ultimo incontro, quando hanno parlato delle posizioni in campo. Redondo ha comunicato all’allenatore che se non avesse giocato da cinque, avrebbe preferito non essere convocato».
Per il Principe si tratta della goccia che fa traboccare il vaso. Redondo si sente tradito. Dal suo punto di vista, Passarella ha mentito, è stato un doppiogiochista e per questo dichiara chiusa la sua esperienza in nazionale fino a quando il Kaiser avrebbe mantenuto la carica. «Passarella è una persona che mi ha deluso, ha detto una bugia e dopodiché mi ha accusato di essere un bugiardo. Non posso far parte di un progetto nel quale non credo», racconta in un’intervista del 1998 al quotidiano argentino La Nacion.
Così, si chiude, difatti, l’esperienza di Redondo in nazionale. Alla vigilia di Francia ’98 è indiscutibilmente il miglior centrocampista al mondo, ha appena vinto la sua seconda Champions con il Real Madrid, ma non c’è posto per lui nella spedizione dell’Argentina. Quella del taglio di capelli non sarà l’unica richiesta bizzarra di Passarella durante il suo mandato da CT.
Qualche mese dopo la diatriba con Redondo, il tecnico dichiara a mezzo stampa che non avrebbe convocato mai e poi mai un calciatore omosessuale. Poco dopo il suo insediamento aveva imposto ai suoi giocatori una rinoscopia, per scoprire chi tra di loro avesse fatto uso di cocaina. Il clima è dittatoriale, Passarella nel suo mondo ideale vorrebbe isolare i suoi uomini dal resto del mondo, come se si trovassero in una caserma, e infatti durante i mondiali in Francia fa erigere una staccionata di due metri e mezzo per nascondere gli allenamenti da occhi indiscreti.
Le paranoie e le pretese di Passarella polarizzano il dibattito in Argentina. Maradona, subito dalla parte di Redondo all’epoca dell’esclusione, si prende gioco del CT con la sua ironia un po’ sboccata: «E la rinoscopia, e i capelli corti… Un giorno i ragazzi si gratteranno una palla e gliela farà tagliare». Menotti, di certo non un sostenitore del Kaiser per usare un eufemismo, lo accusa di voler nascondere la polvere sotto il tappeto con polemiche tanto insensate: «Questo tipo di discorsi serve a distogliere l’attenzione dal vero problema, cioè che non si capisce quale sia il gioco della nazionale, che già ha fallito in Coppa America».
L’analisi di Menotti sembra cogliere nel segno. Preoccupato dai risultati della nazionale nel girone di qualificazione, Passarella, infatti, allenta la cinghia. In Francia, alla fine, si presenta un’Argentina piena di “capelloni”: Almeyda, Crespo, Batistuta, Ortega (quest’ultimo, non proprio il massimo della disciplina). A posteriori, visto il dietrofront del CT sulla questione acconciature, viene da chiedersi se non ci fosse qualcosa di più profondo nelle incomprensioni tra Redondo e Passarella.
Le lacrime di Dortmund: il ritiro di Redondo
Redondo si è ritirato nel 2004, dopo i gravi infortuni che gli hanno impedito di giocare con continuità con la maglia del Milan. Da quel momento, si è allontanato dal calcio. Si limita ad osservare la carriera dei figli: il più piccolo, Federico, classe 2003 dal fisico longilineo, veste la maglia numero cinque dell’Argentinos Juniors, proprio come lui. Il grande, Fernando, proprio come lui si è rotto entrambi i legamenti prima di debuttare tra i professionisti, ed ha abbandonato il calcio per dedicarsi allo studio. Nel bene e nel male, Redondo ha lasciato qualcosa del proprio patrimonio genetico ai suoi figli.
Nonostante l’assenza dai campi, Redondo ama parlare di calcio e rilasciare interviste, da buon menottista verrebbe da dire. Quando gli chiedono del perché abbia rifiutato in maniera così drastica di tagliare i capelli, dice che nella vita, per i valori con cui è cresciuto, ci sono cose che non possono essere fatte ad ogni costo: «No todo se hace a cualquier precio», ripete più volte in un’intervista del 2019, sempre a La Nacion. Non si tratta di parole di circostanza, è un atteggiamento coerente con il personaggio. Nel 2000, ad esempio, avrebbe potuto ritornare in nazionale.
Bielsa, allora CT, desiderava metterlo al centro del suo centrocampo. Per via dell’età e degli acciacchi, però, Redondo si era tirato indietro, preferendo concentrarsi sul Real Madrid. Non avrebbe più potuto dedicarsi con continuità alla Seleccion, e allora meglio fare spazio a qualcun altro, senza prendere in giro nessuno.
La sua carriera e le sue scelte, soprattutto nei momenti difficili, dimostrano che Redondo ha sempre avuto un grande amor proprio. Lui e Passarella rappresentavano due tipi umani agli antipodi, ed è lecito pensare che il taglio di capelli, sia da parte di Redondo che dell’allenatore, fosse solo una scusa superficiale dietro la quale nascondere la loro incompatibilità. Se non tutto si può fare a qualsiasi costo, allora meglio non condividere lo spogliatoio con una persona così lontana dal proprio sistema di valori, deve aver pensato il centrocampista.
Ad aprile 1998 Fernando Redondo ha appena giocato la sua miglior partita con la maglia del Real Madrid. Al Westfalenstadion, in semifinale, ha messo in scena una delle più grandi prestazioni individuali della storia recente della Champions League. Il Principe ha vestito i panni del tanguero ed ha fatto ballare l’intero Borussia Dortmund, tra pareti con i compagni e dribbling eseguiti sul confine della linea laterale. Grazie a lui il Real Madrid ha vinto 2-1 ed ha conquistato la finale. Rientrato negli spogliatoi, però, si infila sotto la doccia ed inizia a piangere. «È successo all’improvviso. Mi sono accorto che stavo piangendo. Ero molto emozionato. Probabilmente avevo giocato la miglior partita della mia vita e mi sono ricordato del mondiale».
Nel momento più alto della sua carriera, Redondo pensa a ciò a cui ha rinunciato. Da lì a due mesi, senza di lui, sarebbe iniziato Francia ’98. Per un uomo così orgoglioso è difficile dire che ci sia rimpianto. Di certo, c’è la consapevolezza di quanto gli siano costate certe scelte. Redondo racconta l’episodio della doccia in un’intervista a El Pais di poco successiva alla partita. Nel 1998 pronuncia già le stesse parole che avrebbe usato nel 2019: «L’idea del mondiale è ciò che mi ha fatto riflettere. Pero está claro, no a cualquier precio».