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Benny Carbone, il fantasista che trovò il suo posto in Premier

La carriera di Benny Carbone, un numero dieci estroso, vittima di incomprensioni tattiche in Italia ed eroe di culto in Inghilterra.

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Emanuele Mongiardo

Emanuele Mongiardo

Giornalista

Emanuele Mongiardo, nato a Catanzaro, fan dell'hip hop, di Joe Pesci e dei film di Martin Scorsese in generale. Scrivo di calcio in giro.

Benny Carbone, il fantasista che trovò il suo posto in Premier Fonte: Imago Images

Nella stagione 1996/97, la Serie A non era più un campionato per numeri dieci. Stravolto dal sacchismo e dal dogma del 4-4-2, il calcio italiano aveva ripudiato una delle sue figure tradizionali. Il trequartista sembrava reperto di un tempo passato, inutile per allenatori ossessionati dal controllo militaresco degli spazi. Tra i discepoli di Sacchi, il più celebre ed ortodosso di allora era Carletto Ancelotti, lontano dalla figura dell’allenatore paterno e flessibile che conosciamo oggi.

Ancelotti era intransigente nel suo credo, non ci poteva essere singolo al di sopra del sistema. Per via di incomprensioni tattiche col tecnico di Reggiolo, a gennaio ‘97 il Parma aveva ceduto Gianfranco Zola al Chelsea, mentre nella sessione estiva di mercato, un veto dell’allenatore aveva interrotto la trattativa per portare al “Tardini” Roberto Baggio.

Zola e Baggio sono solo le vittime più celebri della rivoluzione sacchiana. In quella stessa estate del ‘96, infatti, abbandona la Serie A anche un altro numero dieci estroso e anarchico, Benito Carbone. Classe ‘71, nativo di Bagnara Calabra, sulla costa tirrenica del reggino, Carbone si era fatto notare con le maglie di Torino e Napoli ed aveva vinto l’Europeo di categoria con l’Italia Under 21, in una nazionale che poteva contare anche su Toldo, Fabio Cannavaro, Panucci, Vieri e Inzaghi.

Gli inizi di carriera di Benny Carbone

Per Carbone, il trasferimento all’Inter poteva rappresentare la svolta della carriera, magari con la prospettiva di prendere il posto di Baggio nell’Italia, visto l’ostracismo di Sacchi nei suoi confronti. Sulla sua strada, però, si era messo d’intralcio un altro allenatore fanatico del 4-4-2 e della razionalità geometrica: Roy Hodgson.

Hodgson era arrivato all’Inter dopo un’esperienza da CT della Svizzera. Era noto soprattutto per i suoi trascorsi nel campionato svedese, dove aveva impiantato un’idea di gioco innovativa ed efficiente: un 4-4-2 incentrato su pressing iper aggressivo e maglie strette, con cui aveva vinto più volte il campionato nel paese scandinavo e con cui, sulla panchina del piccolo Malmo, aveva addirittura eliminato l’Inter dalla Champions.

In un sistema del genere, la collocazione ideale per Carbone sarebbe stata quella di seconda punta. Hodgson, però, aveva idee diverse e preferiva schierarlo da esterno destro di centrocampo, un ruolo di puro sacrificio che ne mortificava il talento e ne esponeva le lacune fisiche, visto che Carbone non raggiungeva nemmeno il metro e settanta.

«Ho fatto tre gol, su trentaquattro partite ne ho disputate trentuno da titolare, quindi ho giocato sempre. Però, ho svolto più un lavoro di quantità che non da finalizzatore o suggeritore, che è quello che ho fatto sempre in carriera. Ecco perché ho segnato così poco all’Inter», ha ricordato il calabrese a proposito della gestione Hodgson, la stessa che portò l’Inter a cedere Roberto Carlos per tenersi Pistone.

Nell’estate del ‘96 Carbone non ha più intenzione di sacrificarsi. L’allenatore gli impone di giocare a destra o di andarsene, sarebbe arrivato Djorkaeff al suo posto. Così, il numero dieci fa le valigie e cambia campionato: ad aspettarlo, in Inghilterra, c’è lo Sheffield Wednesday, che lo acquista per tre milioni di sterline, record nella storia del club. Carbone non è il solo Italiano a raggiungere la Premier in quel periodo. Nelle stesse settimane, infatti, Fabrizio Ravanelli si accasa al Middlesbrough, mentre Gianluca Vialli se ne va al Chelsea, dove, come detto, da lì a poco lo avrebbe raggiunto Gianfranco Zola.

Benito Carbone con la maglia del Aston Villa Fonte: Imago Images

Il primo anno a Hillsborough

Le foto di presentazione di Carbone ad Hillsborough, lo stadio dello Sheffield Wednesday, sono un piccolo compendio di tutti gli stereotipi sugli italiani. In uno scatto, il nuovo acquisto abbraccia un uomo con uno smoking nero e una maschera di Pavarotti. In un’altra foto, insieme all’allenatore Pleat, Carbone si appresta ad addentare una forchettata di spaghetti, un’immagine che, più che rappresentare l’amore per la pasta degli italiani, testimonia le oscenità della cultura culinaria inglese, visto che quegli spaghetti sembrano incredibilmente scotti e collosi, senza nemmeno un goccia di sugo.

Fuori dal campo, i primi tempi sono difficili per Carbone: non conosce la lingua e non è facile passare dall’Italia al grigiore dello Yorkshire. Per fortuna, ad aiutarlo c’è il capitano, Des Walker, che masticava un po’ di italiano per via dei suoi trascorsi alla Sampdoria. L’ex Inter aveva per sé anche un interprete di nome Lino, che durante le partite si piazzava in panchina al fianco di Pleat. Dopo il fischio d’inizio, però, ogni barriera tra Carbone e l’Inghilterra spariva ed erano i piedi a parlare per lui.

La Premier di metà anni ‘90 non era ancora il campionato scintillante che conosciamo oggi, la casa dei migliori calciatori e degli allenatori più innovativi. Quello dell’epoca, era ancora un calcio legato alla tradizione britannica, intenso ma disordinato, dove erano i muscoli, i tackle, i lancioni e i colpi di testa a farla da padroni. Carbone, con la sua classe e il suo fisico minuto, che sembrava perdersi nelle divise oversize dello Sheffield, aggiungeva qualcosa di nuovo al campionato.

Per una squadra inglese di media-bassa classifica, un numero dieci con piedi simili era una ricchezza inedita: così diverso dal resto del contorno, Carbone avrebbe impiegato poco a diventare un giocatore di culto di quella Premier.

Del suo talento, Hillsborough se ne accorge definitivamente alla settima giornata del campionato 1996/97. Lo Sheffield ospita il Nottingham Forrest e passa in vantaggio a metà secondo tempo. A cinque minuti dalla fine, Carbone si smarca sul limite dell’area e riceve un passaggio a rimorchio. Senza pensarci due volte, l’italiano tira uno schiaffo al pallone di mezz’esterno che si infila sul secondo palo.

È il primo gol con la maglia degli owls e a fine campionato saranno sei. Il suo contributo alla causa, però, non sono solo le reti. Libero di agire da numero dieci e di muoversi secondo il suo istinto, Carbone emerge dal caos delle partite di Premier e strabilia i tifosi con la sua inventiva. A dicembre, disputa la sua miglior partita contro il Manchester United di Sir Alex Ferguson, squadra campione in carica e che avrebbe vinto anche quel campionato. Carbone galleggia tra le linee e i difensori non sanno se accorciare o lasciarlo ai centrocampisti.

L’ex Inter riempie la sua partita di appoggi di prima, assist deliziosi e dribbling in cui i giocatori del Manchester sembrano troppo grossi per dar la caccia a una preda tanto leggera. Nel secondo tempo, su un contropiede, arriva anche il gol: Carbone riceve al limite dell’area, sterza sul destro, nota Schmeichel fuori dai pali e lo supera con un interno a giro tanto lento quanto preciso. Lo Sheffield conclude la stagione al settimo posto, poco lontano dalla qualificazione alla Coppa UEFA.

La partnership di Carbone con Di Canio

Dopo appena un anno, Carbone è già uomo copertina per i suoi tifosi. Il suo contributo, però, non si ferma al campo. Pare sia lui, infatti, a consigliare a Pleat l’acquisto di un altro italiano, già da qualche tempo in Gran Bretagna. Paolo Di Canio è il miglior giocatore del Celtic, ma ha già in mente di trasferirsi in Inghilterra. Così, quando arriva la chiamata dello Sheffield, non ci pensa su due volte.

Nella partita d’esordio di Di Canio in Premier, Carbone si inventa una rovesciata da beach soccer: stop di petto, palleggio, e avvitamento con cui beffa il portiere sul secondo palo. La palla non rimbalza mai a terra.

L’intesa tra loro è istantanea. Nei primi giorni, Di Canio, ancora in cerca di una casa, dorme da Carbone. I due arrivano insieme al centro sportivo, spesso sulla Porsche dell’ex interista, e alla fine di ogni sessione si fermano a provare i calci piazzati, con grande stupore del resto dei compagni, non abituati a quel tipo di dedizione per l’allenamento. Sul campo, i due italiani si trovano ad occhi chiusi.

Entrambi tecnicamente sopra la media rispetto al resto della squadra, si muovono alle spalle del centravanti Booth e si avvicinano per dialogare col pallone. La loro simbiosi tocca il picco in una gara casalinga contro il Liverpool, uno spettacolare 3-3: su un lancio in profondità, Di Canio e Carbone corrono uno accanto all’altro. Un difensore dei reds prova a intervenire, ma Di Canio ha la brillante intuizione di fare il tagliafuori sull’avversario; così, senza che il centrale possa mettere il piede, la palla rimbalza precisa davanti a Carbone, che vede David James fuori dai pali e lo supera con un pallonetto da fuori area.

Non è né la prima né l’ultima palombella della carriera del calabrese. Quel tipo di tiro era una delle sue soluzioni preferite. Pallonetti del genere richiedono non solo grande sensibilità di piede, ma anche furbizia. Carbone non è mai stato particolarmente prolifico, gli piaceva svariare sul campo, non era ossessionato dalla porta. Però, sapeva leggere come pochi le intenzioni dei portieri e, grazie al suo bagaglio tecnico, trovava spesso il modo di ingannarli.

Gli italiani avrebbero condotto gli owls ad una salvezza tranquilla. La coppia, però, sarebbe durata solo un anno. All’inizio della stagione 1998/99, infatti, i cattivi risultati spingono la dirigenza ad esonerare Pleat. Di Canio non la prende bene, tanto che si reca, invano, nell’ufficio del presidente per convincerlo a cambiare idea. Il rapporto col nuovo allenatore Wilson non decolla, e così l’ex laziale sfoga la sua frustrazione in una partita di fine settembre contro l’Arsenal.

Durante una rissa a centrocampo innescata da Vieira, Di Canio mette le mani in faccia a Martin Kewon. Paul Alcock, l’arbitro, decide di espellerlo; l’attaccante, in tutta risposta, lo spinge a terra. La FA lo avrebbe punito con una maxi squalifica di dieci giornate. Sarebbe stata la sua ultima partita con lo Sheffield. Di Canio, infatti, non aspetta neanche che finisca la gara: rientra subito a casa, prende il primo aereo per Roma e rifiuta di tornare ad allenarsi. A gennaio si sarebbe trasferito al West Ham.

Senza il suo partner, per Carbone Sheffield diventa un po’ più grigia. Porta a termine la stagione, ma dopo poche giornate del campionato successivo, pianta i piedi e decide di andare via. Secondo alcuni suoi compagni, il calabrese sarebbe stato quasi plagiato da Di Canio. Dapprima timido e quasi fragile, Di Canio lo avrebbe spinto ad alzare un po’ di più il mento.

«Stando insieme a Paolo e vedendo come sono andate le cose, penso che abbia cambiato il suo comportamento e sia diventato un po’ più forte e cinico», ha raccontato Jon Newsome, loro compagno di squadra. Pare che prima di una partita col Southampton, Wilson gli avesse annunciato che sarebbe partito dalla panchina. Infastidito, Carbone, come Di Canio, avrebbe abbandonato lo stadio e sarebbe tornato a casa con un taxi. «Il Benny che era arrivato allo Sheffield Wednesday non lo avrebbe mai fatto», ha commentato Newsome.

Il fatto di avere un altro italiano in spogliatoio, probabilmente non aveva favorito la piena integrazione del calabrese. Non aiutava neanche il fatto che fosse astemio e che rifiutasse i continui inviti dei suoi compagni per una birra al pub. «Adesso ho quarant’anni, sono più vecchio e più saggio e se potessi tornare indietro andrei con loro, ordinerei una coca e riderei di ogni battuta sulla mia statura. Ritrovarsi per una pinta fa parte della mentalità inglese, avrei dovuto realizzarlo», ha dichiarato al Daily Mail nel 2013.

Senza i suoi italiani, lo Sheffield avrebbe concluso il 99/00 da penultimo in classifica, retrocesso in Championship. Da quel momento, gli owls non sarebbero più tornati in Premier, come se Carbone e Di Canio avessero portato via con loro il periodo d’oro della squadra.

Fonte: Imago Images

La tripletta di Carbone a Villa Park

In ogni caso, il numero dieci di Bagnara non fatica a trovare una nuova squadra. Ad ottobre, infatti, si trasferisce all’Aston Villa, squadra capitanata allora da Gareth Southgate. Carbone si impone subito come titolare in un club che compete per i posti europei. Eppure, non si è ancora ambientato del tutto in Inghilterra. La nostalgia di casa si fa sentire e dall’Italia si rincorrono voci di club di Serie A interessati a lui.

Alla vigilia dell’ottavo di finale di FA Cup contro il Leeds, Carbone avrebbe già le valigie pronte, non fosse stato per l’allenatore John Gregory: «Stavo male e mi mancava casa, gli avevo detto di voler tornare in Italia. Mi rispose: Tu non vai da nessuna parte, Benny. Ho bisogno di te qua. Abbiamo un’eliminatoria di FA Cup contro il Leeds domani. Vedrai che starai meglio dopo avergli fatto qualche gol».

La previsione è quanto mai azzeccata, perché quell’Aston Villa-Leeds diventa la copertina della carriera di Carbone. L’italiano firma la tripletta con cui la squadra di Birmingham vince la partita, un 3-2 arrivato in rimonta dopo il vantaggio del Leeds. Il secondo gol rimane uno dei più iconici della storia della competizione. Carbone raccoglie un campanile poco oltre il centrocampo, sulla sinistra. Alza la testa e nota il portiere distratto sul secondo palo, forse si attende un cross verso quella zona.

Carbone, allora, lascia partire un destro a giro che però curva verso l’incrocio del palo più vicino, totalmente scoperto. Quando il portiere se ne accorge, è troppo tardi. Carbone si limita ad alzare le dita al cielo, mentre continua a masticare il suo chewing-gum con nonchalance, come se avesse fatto la cosa più semplice del mondo.

L’Aston Villa avrebbe raggiunto la finale di FA Cup, sconfitto solo dal Chelsea grazie a una prodezza di un altro italiano, Roberto Di Matteo. Carbone si sarebbe guadagnato un posto nel cuore dei tifosi, che avrebbero intonato il suo nome sulle note di “Volare”.

Il Bradford, una società sull’orlo del baratro

A quel punto, l’italiano si aspetta una proposta di rinnovo, ma dalla società non arrivano offerte. Si parla di un interesse della Fiorentina per lui. Alla fine, però, a spuntarla è il Bradford, che l’anno prima si era salvato solo all’ultima giornata. L’acquisto di Carbone, insieme a quello di un altro nome di alto profilo come Dan Petrescu, doveva rappresentare la speranza di una stagione più tranquilla. Ma per la società del West Yorkshire, quel mercato sarà solo l’inizio della fine, e non per colpa dell’ex Inter.

Carbone, infatti, si lascia convincere dalla promessa di un contratto quadriennale da circa due milioni di sterline l’anno: bazzecole per le piccole della Premier di oggi, ma somma considerevole per il calcio inglese di inizio millennio. «L’accordo includeva una casa a Leeds con sette camere da letto e cinque bagni, che è collegata al disastro finanziario del Bradford», riporta il Daily Mail.

Nonostante i nomi nuovi, infatti, la squadra retrocede. Carbone addossa la responsabilità ai metodi spartani dell’allenatore Jeffries, che avrebbe trasformato il ritiro estivo in una vera e propria leva militare, dove i giocatori dovevano pulire le stanze, con tanto di ispezioni giornaliere, e correre nel fango senza vedere mai la palla. «Non avevamo speranze di salvarci, quello non è calcio», ha dichiarato a riguardo.

Per non perdere la Premier, nella stagione successiva Carbone va in prestito in due squadre diverse, prima al Derby County di Fabrizio Ravanelli, poi, da gennaio, al Middlesbrough, dove costruisce un’ottima intesa con Alen Boksic. Come ai tempi del Villa, il calabrese si aspetta una proposta per rimanere al Boro in maniera definitiva, ma la dirigenza la pensa diversamente. Così, Carbone ritorna al Bradford, dove gli rimangono altri due anni di contratto.

La società, però, è in dissesto. Caduta nei bassifondi della Championship, il presidente Richmond non ha saputo sostenere i costi di una squadra costruita con più risorse di quelle effettivamente disponibili. Il contratto di Carbone, in una situazione del genere, è troppo oneroso.

Richmond chiama Carbone e lo implora di lasciare Bradford e rinunciare ai suoi soldi: «Mi ha semplicemente detto: “Benny, siamo nei guai. Non possiamo più pagarti”. Gli ho risposto “Non si preoccupi presidente, non sarò io ad uccidere il club”. Avevo ancora due anni di contratto, cosa avrei dovuto fare? Ho pensato ai tifosi, non avrei potuto fargli questo. Sono andato via senza i soldi, ma con la coscienza pulita». Dopo quella telefonata, sarebbe tornato in Italia, dapprima al Como, poi al Parma, e infine in giro per lo stivale tra Serie B e Serie C.

I rimpianti di Benny Carbone

A più di vent’anni di distanza, Carbone viene ancora ricordato con affetto dal pubblico inglese. Lui ammette il rimpianto di non aver avuto pazienza all’Inter, perché Hodgson sarebbe stato esonerato sei mesi dopo il suo addio e da lì a poco sarebbe arrivato Ronaldo, ma ricorda con grande affetto la Premier, soprattutto Sheffield.

Qualche anno fa, si è ritrovato ad Hillsborough per una partita tra vecchie glorie degli owls. Tra i presenti, anche Danny Wilson, con cui ha avuto modo di appianare i diverbi che lo avevano spinto all’addio. «Sono tornato per un’amichevole di beneficienza, dopo vent’anni che me n’ero andato la folla impazziva ancora per me. C’era Danny Wilson. L’ho preso da parte e gli ho chiesto scusa. Ero davvero giovane. La mia testa era diversa. È stato un mio errore, sicuramente». Come per l’Inter, Carbone si pente di aver lasciato una società e un pubblico che lo avevano amato dall’inizio.

Ciò di cui di sicuro non si duole, sono i soldi lasciati sul tavolo a Bradford. Chiunque abbia conosciuto o intervistato Carbone, parla di una persona davvero umile, nelle parole e nei fatti. Le frasi con cui spiega la sua scelta di andare via dall’Inghilterra, nonostante gli anni rimasti sul contratto, testimoniano meglio di qualunque altra cosa il suo percorso e la sua personalità.

«Qualcuno mi chiamerebbe stupido ma siamo innanzitutto uomini, solo dopo giocatori. Non voglio rovinare la vita di altre persone con i miei errori. Per cosa, poi? Io vengo dalla strada. Sono diventato ricco, ma non sono mai cambiato. Nessuno può dire il contrario. Ho perso mio padre quando avevo quattro anni. Mia madre ha cresciuto sei figli da sola, vendendo olio d’oliva. Dopo dodici ore di lavoro, si sarebbe dedicata ad un secondo lavoro e poi sarebbe tornata a casa a cucinare per noi. Noi giocatori siamo stati così fortunati ad avere il miglior lavoro del mondo. Ma il lavoro non può cambiare chi sei. Sono sempre umano».

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