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Mendieta, leggenda del Valencia che non riuscì a sfondare in Serie A

La carriera di uno dei giocatori più discussi degli anni 2000, dalle finali di Champions col Valencia al trasferimento record nella Lazio di Cragnotti

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Emanuele Mongiardo

Emanuele Mongiardo

Giornalista

Emanuele Mongiardo, nato a Catanzaro, fan dell'hip hop, di Joe Pesci e dei film di Martin Scorsese in generale. Scrivo di calcio in giro.

Mendieta, leggenda del Valencia che non riuscì a sfondare in Serie A Fonte: Imago Images

Il calcio italiano, ormai da tempo, vive un periodo di crisi, ratificato da sessioni di mercato in cui la Serie A, ormai, è un torneo desportazione, preda non solo delle società della Premier, ma anche di quelle francesi. Sono lontani i tempi in cui le italiane spadroneggiavano sul mercato.

Il periodo di massimo splendore lo abbiamo raggiunto a cavallo del nuovo millennio, quando i presidenti-mecenati sborsavano senza batter ciglio decine di miliardi di lire per i nomi del momento. Un tipo di gestione poco oculata, complice del fallimento di importanti aziende, che non aveva paura di investire su giocatori che si sarebbero rivelati un abbaglio. L’esempio più chiaro di quella tendenza è il trasferimento di Gaizka Mendieta alla Lazio per 89 miliardi di lire.

Chi è Gaizka Mendieta

Mendieta, per chi ha vissuto quell’epoca, è il bidone per antonomasia. Arrivato nella capitale come uno dei migliori centrocampisti d’Europa, se n’è andato dopo appena una stagione, prima relegato in tribuna e poi sbolognato in prestito al decadente Barcellona di Gaspart. La cifra sborsata da Cragnotti lo aveva reso lo spagnolo più pagato di sempre, superato solo dieci anni più tardi dal trasferimento di Fernando Torres al Chelsea. Per la Lazio l’estate del 2001 rappresentava un periodo di transizione. Il crac della Cirio non era ancora arrivato, la società era in grado di sborsare importanti cifre sul mercato; ma Cragnotti, contestato dai tifosi, aveva minacciato di mollare gli ormeggi.

I biancocelesti avevano appena ceduto Veron al Manchester United e Nedved alla Juventus. Per sostituire la Brujita, dall’Udinese era arrivato Stefano Fiore. Al posto di Nedved, forse ingannato dal lungo caschetto biondo, Cragnotti aveva scelto Mendieta. Si diceva che il primo obiettivo della Lazio fosse Rivaldo e che, visto il mancato accordo col Barcellona, la società capitolina avesse deciso di investire comunque in Spagna. A convincere il centrocampista a trasferirsi in Italia ci aveva pensato il Piojo Lopez, anche lui giunto in biancoceleste da Valencia in quegli stessi mesi.

Gaizka Mendieta con la maglia della Lazio Fonte: Imago Images

La triste stagione alla Lazio di Mendieta

I tifosi laziali avevano accolto Mendieta in massa all’aeroporto. I giornali sembravano entusiasti. Repubblica, in quei giorni, ne tracciava un profilo a dir poco lusinghiero: «Gaizka Mendieta, basco, 27 anni, centrocampista in grado di fare tutto: difendere, combattere, cucire il gioco, attaccare, regalare assist, segnare. Insomma, l’uomo giusto per colmare una lacuna che ai tifosi ancora adesso sembra incolmabile: la partenza di Pavel Nedved. Mendieta fa meno gol del ceco, ma è più continuo». A dimostrazione dello status dell’ex Valencia, Cragnotti gli aveva garantito uno stipendio da otto miliardi e mezzo di lire a stagione, pari a quello di Nesta e Crespo, le due stelle della squadra.

L’idillio con la Lazio, però, sarebbe stato solo una cotta estiva. Giusto il tempo di disputare una gran partita nei preliminari di Champions contro il Copenaghen: dopo aver perso 1-0 in Danimarca, la Lazio vince il ritorno 4-1 e Mendieta firma un bell’assist per Stefano Fiore. Da lì in poi inizia la crisi, che ne avrebbe per sempre ridicolizzato il nome agli occhi del pubblico italiano. Gioca da titolare le prime otto partite di campionato, in cui la Lazio, però, raccoglie appena una vittoria. Zoff lo schiera da interno di centrocampo, ma al di là della posizione lo spagnolo sembra spaesato. Dopo una sconfitta per 2-0 nel derby con la Roma, Mendieta finisce definitivamente in panchina. Gli rimane solo qualche scampolo di secondo tempo da giocare.

Nonostante lo scarso minutaggio, l’ex Valencia rientra tra i convocati della Spagna per il mondiale del 2002. Rientrato dall’esperienza con la nazionale, chiusa dalla sconfitta ai rigori con la Corea del Sud in una partita a dir poco indirizzata dall’arbitro, Mendieta non ne vuole sapere di rimanere in Italia. Così la Lazio lo spedisce in prestito al Barcellona, chiudendo di netto la sua parentesi in Serie A.

Erano bastate poche partite a mandare in fumo un investimento da 89 miliardi di lire, una mossa degna del peggior Manchester United dei nostri giorni. Come era possibile aver preso un abbaglio simile? Cosa c’è dietro ad un fallimento di tale portata? Di certo, prima di rovinare la sua reputazione nel nostro paese, Mendieta per diverse stagioni è stato un calciatore formidabile, tra i migliori di tutta Europa.

Da Castellon a Valencia

Mendieta nasce a Bilbao nel 1974, ma cresce a Castellon, nella Comunità Valenciana, dove suo padre Andrés aveva chiuso la carriera da calciatore. Gaizka, insomma, è figlio d’arte, tanto che non fatica ad entrare nelle giovanili del Castellon e ad esordire in prima squadra nel 1991, a diciassette anni. Nasce come terzino destro e in quella prima stagione tra i professionisti attira subito l’attenzione del Valencia, che lo acquista nell’estate del ‘92. L’ingresso in prima squadra, però, avviene in maniera graduale. Esordisce in Liga solo a giugno del ‘93 e passa l’inizio della seconda stagione con i Che soprattutto in panchina. Poi, però, da gennaio del ‘94 si prende definitivamente un posto da titolare. Pian piano Mendieta diventa un punto di riferimento nello spogliatoio del Valencia. Un giocatore silenzioso, che però, per rendimento, non delude mai.

Nei suoi primi anni tra i grandi, Mendieta offre il meglio sotto la gestione di Luis Aragones, stagione 1995/96. In maniera sorprendente, il Valencia si classifica secondo in Liga, alle spalle dell’Atletico Madrid campione. Il biondo numero sei spagnolo è un motorino infaticabile sulla destra, terzino o esterno di fascia sempre disposto a sovrapporsi e a dare una mano in difesa. Chi lo avrebbe detto che appena un anno dopo avrebbe rischiato di essere ceduto, senza troppi complimenti.

Nel corso della stagione successiva, infatti, i cattivi risultati spingono la dirigenza ad esonerare Aragones. Al suo posto arriva Jorge Valdano, allenatore abituato a mettere la tecnica al centro delle proprie squadre. Per l’argentino, i polmoni di Mendieta non sono più indispensabili. A gennaio del ‘97 lo invita in maniera esplicita a cercarsi un’altra squadra. Lo spagnolo, però, rimane a Mestalla, nonostante Valdano gli dia spazio solo nelle ultime giornate, quando la squadra avrebbe raggiunto un anonimo decimo posto.

L’intuizione di Ranieri: il periodo d’oro di Mendieta

La sorte lo avrebbe premiato: l’anno dopo, Valdano dura appena tre partite, poi viene esonerato. Come sostituto, la dirigenza sceglie Claudio Ranieri, l’uomo che gli cambia per sempre la carriera. Vista la sua predisposizione offensiva e la sua intelligenza, il tecnico testaccino pensa che Mendieta sia sprecato da semplice terzino o da esterno confinato al binario. Il basco può offrire molto più di quello che gli avevano chiesto i suoi allenatori fino a quel momento.

Mendieta continua spesso a partire da esterno di centrocampo, ma ha molta più libertà di muoversi anche verso il centro. Da lì, le sue letture degli spazi sono decisive sia negli inserimenti, sia nel partecipare alla manovra, sia nel condurre palla tra le maglie avversarie con la sua velocità. Se fino a quel momento, di Mendieta erano note soprattutto le qualità atletiche, da Ranieri in poi inizia a risaltare anche la sua tecnica, declinata in lunghe corse palla al piede e in una qualità balistica davvero eccellente.

Ranieri costruisce una squadra quadrata in difesa e letale in contropiede. Mendieta alza talmente tanto il livello delle prestazioni da meritarsi la fascia di capitano. Alla fine della stagione 1998/99, arrivano il quarto posto in campionato e la qualificazione in Champions League, la prima per il club da quando la competizione non si chiama più Coppa dei Campioni. Soprattutto, a maggio arriva anche la vittoria in Coppa del Re, il primo trofeo per il Valencia dopo vent’anni di digiuno.

Mendieta e Lopez firmano un secco 3-0 sull’Atletico Madrid. La partita è un saggio del repertorio dello spagnolo, un giocatore estremamente completo, che per la varietà delle sue caratteristiche avrebbe potuto adattarsi anche al calcio di oggi. Ranieri lo schiera da terzino sinistro. Mendieta adempie a tutte le consegne canoniche del ruolo: tiene la linea con gli altri difensori e sa quando uscire aggressivo sull’uomo. Con la palla, però, definirlo terzino è riduttivo.

Il capitano del Valencia entra dentro al campo e passa in mezzo agli avversari, si avvicina ai compagni per dialogare con loro, se può alzare la testa, innesca le punte in profondità. Dopo uno smarcamento sulla sinistra, firma un assist al bacio per il gol dell’1-0 di Lopez. Alla mezz’ora, però, arriva il suo capolavoro: un virtuosismo da brasiliano, la dimostrazione di come si trattasse molto di più di un centrocampista di corsa e senso tattico.

Le punte del Valencia si erano allargate, allora Mendieta, pur partendo da terzino, vede lo spazio libero al centro e attacca l’area. Riceve un cross sul limite e per controllarlo di petto è costretto a girarsi spalle alla porta. Dietro di lui ci sono due difensori. Dopo lo stop di petto ammortizza la sfera con la coscia; il difensore di destra, allora, si stacca su di lui, convinto di rubargli il possesso. Mendieta lo nota e si inventa un sombrero con cui lo salta e si gira verso la porta. La palla cade precisa sul suo sinistro e Mendieta, al volo, trafigge il portiere.

Gaizka Mendieta con la maglia del Valencia Fonte: Imago Images

Mendieta al Valencia di Cuper

Da quella stagione, Mendieta diventa un nome di spicco del calcio spagnolo, presenza fissa anche tra i convocati della nazionale. Dall’anno successivo, però, il suo status cambia totalmente, e Mendieta diventa uno dei calciatori più importanti di tutto il panorama europeo. Per la stagione 1999/00, infatti, il Valencia cambia guida tecnica e affida la panchina ad Hector Cuper.

Con l’argentino, cambia totalmente il modo di stare in campo. Il Valencia si trasforma in una squadra d’avanguardia, capace di passare dal 4-4-2 della fase difensiva ad una sorta di 4-3-1-2 in fase offensiva, con il mediano Gerard che si sgancia in avanti e diventa un trequartista, mentre gli esterni Kily Gonzalez e Mendieta stringono verso il centro del campo.

A definire il Valencia, è l’intensità che impone alle partite: scambi corti e rapidi col pallone e pressing feroce in fase di non possesso, con gli attaccanti che alle volte arrivano ad aggredire anche il portiere. Un calcio del genere richiede non solo qualità tecnica, ma anche disponibilità di corsa: il contesto perfetto per Mendieta. Il numero sei non fatica a trasformarsi da esterno a centrocampista; non ha problemi a pressare in avanti né a rientrare per dare una mano al terzino destro. Per uno col suo passato, correre non è mai stato un problema. Fino a quindici anni, infatti, si è dedicato all’atletica leggera, in particolare ai mille metri a ostacoli. Juan Manuel Alfano, preparatore del Valencia, lo definiva «molto ben dotato geneticamente, con una gran capacità di recupero»: un vero atleta, oltre che un gran calciatore.

La prima stagione con Cuper è anche la migliore dal punto di vista realizzativo per lui, che firma 13 gol e 7 assist in campionato. Molte reti arrivano da calcio piazzato. Con gli anni, Mendieta era diventato uno specialista sia dei rigori che delle punizioni. Il suo non era un talento naturale. Tuttavia, l’ambizione e lo studio ne hanno affinato l’esecuzione. Il basco ha avuto maestri eccellenti. Le punizioni si dice le abbia apprese da Mijatovic: pare che Mendieta, alla fine di ogni allenamento, si fermasse ad osservare il montenegrino per carpirne i segreti. La tecnica dei rigori, invece, l’ha rubata ad Oleg Salenko, che gli ha insegnato a rallentare per ingannare il portiere e spingerlo a tuffarsi prima. Mendieta ignorava il pallone, osservava fino all’ultimo l’estremo difensore per indurlo a fare la prima mossa. «Non mi toglieva gli occhi di dosso – ha detto Casillas a proposito di un rigore che aveva subito da Mendieta nel 2000 – Non guarda il pallone. Ho pensato, “cavolo, che tipo!”».

Diversi gol, invece, nascono da un’altra specialità del capitano del Valencia, i tiri al volo. Mendieta aveva una gran coordinazione e un gran tiro, non aveva bisogno di lasciar rimbalzare la palla per colpirla di pieno collo. Oltretutto, utilizzava senza distinzione sia il destro che il sinistro. Tante volée di Mendieta nascevano dalla sua intelligenza negli smarcamenti. Il Valencia costruiva spesso sulla sinistra, dal lato di Kily Gonzalez. Mendieta, sul lato debole, aspettava che la difesa collassasse verso la palla per appostarsi tutto solo sul secondo palo, dove così poteva avere più spazio per coordinarsi e calciare al volo.

Ai 13 gol in campionato, poi, ne vanno sommati altri 5 in Champions, con cui il basco trascina i suoi verso la finale di Parigi contro il Real Madrid. Nella strada verso la gloria, il Valencia aveva travolto la Lazio di Eriksson, futura campione d’Italia, per 5-2 a Mestalla nei quarti. Poi, contro il Barcellona in semifinale, gli uomini di Cuper avevano chiuso il discorso qualificazione già all’andata con un perentorio 4-1. Le finali, come sappiamo, non sono state mai troppo clementi con il Valencia. Il Real Madrid, infatti, vince agevolmente per 3-0, in una gara condizionata dall’assenza di Amedeo Carboni e dagli acciacchi di Farinos e Kily Gonzalez.

Per Mendieta, però, il vero rimpianto è la Champions League dell’anno successivo. Ancora una volta, infatti, il Valencia raggiunge la finale di San Siro, la seconda di fila, un traguardo storico per qualsiasi club. L’avversario, nel 2001, è il Bayern Monaco. Mendieta aveva deciso la semifinale di ritorno, col Leeds, con un assist e un gol. Il Valencia sembrava la squadra migliore, rafforzata dall’acquisto del giovane talento argentino Pablo Aimar. Ancora una volta, però, la sorte volta le spalle a Cuper e gli spagnoli perdono ai rigori. «Nella finale con il Real non eravamo ad un livello tale da poter disputare quel tipo di partita – racconta Mendieta – era la nostra prima grande finale e ci è mancata esperienza. Ma nella seconda finale, credo che abbiamo giocato meglio del Bayern e che meritassimo di vincere».

Dal Valencia alla Lazio: una nuova (breve) strada per Mendieta

Dopo la delusione di San Siro, Mendieta capisce che il suo ciclo a Valencia è concluso. Così, arriva il trasferimento alla Lazio e, difatti, la fine della sua carriera ai massimi livelli. Come si spiega la sua parabola? Mendieta non è stato un one season wonder, ha dimostrato il suo valore non solo in Spagna, ma anche al cospetto dei migliori avversari d’Europa. Cosa c’è dietro il suo tonfo in Serie A? Cuper adduceva come ragione la differenza di ritmi tra Spagna e Italia: «I giocatori che arrivano dalla Spagna devono adattarsi al ritmo del calcio italiano, più veloce rispetto alla Liga». La cattiva stagione della Lazio, poi, di certo non lo ha aiutato. Ma non si è trattato solo di adattarsi al nuovo contesto. Sul rendimento di Mendieta nel nostro Paese deve aver pesato, e non poco, l’aspetto psicologico, non solo per le finali perse.

Al termine della stagione 2000/01, infatti, pare che il basco avesse già un accordo col Real Madrid. Cortés, il presidente del Valencia, però, non ne voleva sapere di cedere il proprio simbolo – «Mendieta è il pipistrello dello scudetto del Valencia», aveva addirittura affermato – ad una concorrente tanto odiata.

Lo ha raccontato, in quei giorni, anche Valdano, che da dirigente della Casa Blanca, dopo averlo ostracizzato a Mestalla, aveva provato a portarlo al Bernabeu: «L’acquisto di Mendieta è da escludere, nonostante non abbia mai rifiutato il Real Madrid e, al contrario, gli avesse detto di sì. Non c’è stato neanche un “no” da parte del Madrid al Valencia, è stato il Valencia a dire di no ad una trattativa con il Real Madrid». Per un giocatore con quelle caratteristiche, la motivazione è fondamentale per competere e correre fino allo stremo delle forze. Per quanto la Lazio potesse essere grande, è evidente come i desideri di Mendieta fossero altri.

Cosa fa oggi Gaizka Mendieta

Dopo il ritiro, nel 2008, Mendieta è rimasto lontano dai campi. Grande appassionato di rock – di Lou Reed in particolare – colleziona dischi e ama cimentarsi come dj. Durante gli ultimi mondiali teneva una sua rubrica su El Pais: una penna meno banale rispetto alla media degli ex calciatori che si riciclano come opinionisti. Mendieta non è mai stato troppo loquace e il fatto che preferisca la parola scritta per esprimersi lo dimostra.

In Italia lo ricorderemo sempre per i miliardi spesi dalla Lazio, ma a Valencia è ancora una leggenda, tanto più in un periodo di crisi come quello che attraversa il club, invischiato nella lotta per la salvezza e preda di un presidente, Peter Lim, che non vuole cedere ma che al contempo non è disposto a investire. La sua storia dimostra quanto sia sottile la linea tra il fallimento e il successo. Un giocatore che nel 2000 era arrivato ottavo nella classifica del Pallone d’Oro, nel 2002 era già finito. Valutare un calciatore dal prezzo del suo cartellino non è mai del tutto corretto. Chissà se Mendieta fosse andato a Madrid come lo avremmo ricordato.

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