Quanto è importante per un calciatore l’immagine che riesce a crearsi al di là del campo? Una domanda scontata nell’epoca dei social network, in cui ogni campione ci tiene a presentarsi in un certo modo davanti al pubblico. L’assunto, però, era valido anche prima che esistesse Instagram, forse in maniera più genuina e senza l’ausilio di social media manager.
Pensiamo ai tanti centravanti di provincia che hanno costellato il nostro calcio. Ognuno di loro, oltre ai gol, ha saputo entrare nel cuore dei tifosi erigendo intorno a sé un’iconografia estremamente riconoscibile: Dario Hubner con il pizzetto, i grappini e le sigarette, Riganò con il passato da muratore e Zampagna con quello nelle acciaierie di Terni. Tutti casi di giocatori entrati nella storia della Serie A, seppur dalla porta secondaria. C’è un attaccante, però, che a differenza loro, la massima serie l’ha potuta a malapena assaggiare, senza possibilità di affermarsi, ma che, per l’immaginario che si porta dietro e per il ricordo che ha lasciato ai suoi tifosi, non è secondo a nessuno di essi.
Giorgio Corona è stato uno degli attaccanti di provincia più forti del nuovo millennio. In Serie A conta giusto trentuno presenze e sette reti (con una rispettabilissima media di 0,37 gol ogni 90’), ma non c’è tifoso che abbia vissuto il calcio di quegli anni che non sappia riconoscerlo. Chiedete di Giorgio Corona e chiunque vi risponderà elencando i suoi tratti peculiari, ancora prima dei gol: la lunga chioma, spesso inumidita, lo sguardo serioso e, soprattutto, il pantaloncino arrotolato.
Ancora prima dei social network, Corona aveva saputo brandizzarsi, in maniera del tutto spontanea e senza secondi fini. Se però è rimasto nel cuore degli appassionati, è perché dietro ad un profilo così riconoscibile ha costruito una carriera eccellente nelle serie inferiori, dove si è dimostrato un attaccante con un repertorio fuori dal comune.
In carriera Corona ha ottenuto due promozioni dalla C1 alla B, la prima vincendo il campionato con il Catanzaro nel 2003/04, la seconda attraverso i playoff con la Juve Stabia nel 2010/11. Sono state vittorie storiche per entrambe le piazze, visto che i calabresi marcivano in Serie C da quattordici stagioni, mentre i campani mancavano in cadetteria addirittura da sessant’anni.
Anche dove non ha vinto, però, Corona ha lasciato uno splendido ricordo, frutto sì di 258 gol in 666 partite disputate tra professionisti e dilettanti, ma anche del furore che sapeva trasmettere ai tifosi con la sua sola presenza in campo. Come nella miglior tradizione del calcio di provincia italiano, la sua è una storia di perseveranza, che lo ha portato dai campi di periferia di Palermo alla ribalta della Serie A.
- Il calcio non era una priorità per Giorgio Corona
- Corona: da Catanzaro alla Serie A
- Corona a Castellammare, una vittoria per la gente
- L’amore trasversale per Re Giorgio
Il calcio non era una priorità per Giorgio Corona
Corona non ha mai giocato nelle giovanili di una delle grandi del calcio siciliano, nonostante il talento evidente già da ragazzo. Nato a Palermo nel maggio del ‘74 e cresciuto alla Kalsa, quartiere fondato dagli arabi e tra i più antichi del capoluogo siciliano, inizia a giocare a calcio ad otto anni nell’Alberto Amedeo, squadra locale allenata da suo zio.
Corona inizia la sua scalata dal basso, dalla seconda categoria addirittura, dove a diciassette anni disputa i suoi primi campionati col Cinisi. La strada è impervia, ma per questo centravanti lungagnone e dai capelli al vento iniziano a parlare i numeri, con cui trascina il Cinisi di categoria in categoria. Grazie a lui, la squadra del nord di Palermo arriva fino al campionato di Promozione.
Nel frattempo, però, Corona è diventato grande, ha superato i vent’anni e deve ancora capire cosa fare della sua vita. Il calcio dei dilettanti di certo non gli dà da mangiare e lui, appresso al pallone, aveva anche trascurato gli studi. Così, suo padre gli impone di mettere i campi da parte e di trovarsi una sistemazione. «Per molti anni non ho pensato che il calcio potesse diventare un lavoro – ha raccontato – quindi lavoravo come apprendista ascensorista e cameriere, per guadagnare e sposarmi con la mia fidanzata. Certo, dormivo con la palla, come tutti gli adolescenti sognavo di fare il calciatore, ma pensavo a lavorare».
A ventitré anni, però, arriva la svolta. Col Cinisi, in Promozione, il ragazzo della Kalsa mette a referto 36 gol in 28 partite. Numeri straordinari, che balzano all’occhio di Nino Barraco, osservatore del Palermo, che lo propone all’allenatore Ignazio Arcoleo e riesce a portarlo in prova in prima squadra. Corona in settimana si allena con i rosanero, mentre la domenica veste la maglia del Cinisi in Promozione.
Alla fine, il Palermo decide di scartarlo. In compenso, Barraco parla di lui a Pasquale Marino, allenatore in rampa di lancio sulla panchina del Milazzo in Serie D. «Quando ero in prova al Palermo c’era Nino Barraco, che era un suo amico, e gli consigliò di prendermi per provare a farmi giocare in una categoria superiore che era la Serie D, dal momento che in quel periodo giocavo in Promozione», ha svelato l’attaccante.
È quello il momento in cui inizia davvero la carriera di Giorgio Corona. Arriva a Milazzo nel 1997/98 e, nonostante il salto di categoria, firma 19 gol in 33 partite. Il suo nome inizia a circolare, così si accorge di lui il Messina, che finalmente lo porta tra i professionisti.
In giallorosso, l’adattamento alla Serie C2 è più difficile del previsto. Sono appena 3 i gol segnati in 27 presenze. Così, la società peloritana decide di cederlo in comproprietà, un limbo che per Corona dura quattro stagioni: dapprima al Tricase, poi al Giugliano, poi al Campobasso e infine al Brindisi. Alla fine di ogni campionato, Corona torna alla base e poi viene ceduto altrove. Una situazione per niente piacevole, ma che comunque gli permette di prendere confidenza con la C2. Così, arrivato alla soglia dei trent’anni, l’attaccante palermitano è uno dei nomi noti della quarta divisione italiana.
Nel 2002/03, però, arriva la consacrazione definitiva. Corona va a Brindisi, in una squadra costruita per vincere il campionato, che tra le proprie fila annovera anche Fabio Paratici, futuro dirigente della Juventus. Vince il titolo di capocannoniere con 20 gol in 31 partite e per tutti diventa Re Giorgio, soprannome tanto intuitivo quanto calzante. I pugliesi si portano a casa la Coppa Italia di Serie C, ma non riescono a vincere il campionato. Costretto ad affrontare i playoff, il Brindisi perde in semifinale contro l’Acireale del presidente Pulvirenti.
Ancora una volta, a fine stagione il Messina si riprende il cartellino di Corona. Nell’estate del 2003, però, arriva qualcuno disposto ad acquistarlo in maniera definitiva: il Catanzaro, la squadra con cui il palermitano, probabilmente, vive la parentesi migliore della sua carriera.
Corona: da Catanzaro alla Serie A
Dopo i venti gol segnati in Puglia, Corona è considerato in maniera unanime uno dei migliori attaccanti della C2. Come lui, anche il Catanzaro è reduce dalla delusione dei playoff – sconfitto, proprio come il Brindisi, dall’Acireale in finale. Nella delusione, c’era affinità tra il siciliano e la sua nuova squadra. Quando i giornalisti gli avevano chiesto del suo passato in comune con il Catanzaro, cioè i playoff appena persi, Corona però aveva già le idee chiare: «Vorrà dire che eviteremo i playoff».
L’acquisto del nuovo attaccante, per il Catanzaro, rappresentava il tassello finale per lanciare l’assalto alla C1. Poi, però, ci aveva pensato la giustizia sportiva a riscrivere l’esito del campionato precedente e a regalare la terza divisione ai calabresi: Catanzaro ripescato in C1 per via dell’annullamento delle retrocessioni dalla Serie B.
Così, Corona viene catapultato in una categoria che non aveva mai affrontato. Non si era mai ritrovato così in alto, avrebbe saputo adattarsi ancora una volta ad un nuovo livello? Una domanda valida, in generale, anche per quel Catanzaro, costruito per vincere la C2, non per ambire alla Serie B. Quale sarebbe stato il destino dei calabresi? La risposta arriva già dopo poche partite di campionato: la rosa, guidata da Piero Braglia, è valida anche in C1 e i giallorossi si candidano a lottare per la vittoria insieme a Crotone e Viterbese.
Corona, dal canto suo, inizia a segnare a ripetizione e diventa all’istante idolo della curva Massimo Capraro. Era dai tempi di Palanca che non si vedeva un calciatore tanto forte nel capoluogo calabrese. Corona è una prima punta, ma il suo habitat non è la sola area di rigore. Il centravanti palermitano poteva prendersi la palla dai centrocampisti, partire in conduzione e caricare la difesa a testa bassa. Corona palla al piede era una furia, leggerne le intenzioni non era mai facile, aveva una capacità di sterzare per superare l’uomo che di solito è impossibile trovare in un giocatore alto quasi un metro e novanta.
Il numero nove del Catanzaro era un attaccante che metteva in soggezione i difensori: i suoi scatti erano difficili da contenere, fisicamente non c’erano avversari alla sua altezza e, soprattutto, aveva una qualità balistica eccezionale, a prescindere dalla categoria. La specialità di Corona erano i tiri al volo. Nel gesto tecnico puro, nella coordinazione e nell’impatto con la palla ancora in aria, non è sbagliato dire che Corona, al suo picco, fosse al livello degli stoccatori migliori della Serie A. Calciava indifferentemente con entrambi i piedi, colpiva di collo pieno, in maniera secca, la potenza e la precisione dei suoi tiri erano brutali.
Il gol più bello di quell’annata lo sigla a settembre, in casa del Foggia: Corona riceve una rimessa laterale in area, decentrato sulla destra. È girato di spalle con il marcatore attaccato, allora di petto controlla all’indietro, facendo rimbalzare il pallone a terra. Il difensore si gira con lui, ma dopo il rimbalzo, senza preavviso, esegue un sombrero con cui ruota verso la porta e salta l’uomo. Il centrale non se l’aspettava, non ha nemmeno il tempo di reagire; quando si gira, Corona sta già calciando, con un destro violentissimo, di controbalzo, che la rete a fatica contiene sul secondo palo.
Il 16 maggio 2004, sul campo neutro di Ascoli, Corona firma il gol del 2-1 con cui il Catanzaro batte il Chieti e guadagna la promozione diretta in Serie B, la prima gioia per i tifosi giallorossi dalla retrocessione in C1 del 1990.
Claudio Parente, presidente di quella squadra, dice che basteranno pochi ritocchi per competere in Serie B. Arrivano giocatori di assoluto valore come l’honduregno Leon, un giovane Nocerino e Benny Carbone, tornato in Calabria per stare vicino a casa. In città monta l’entusiasmo, ma i tifosi non sanno che è solo l’inizio di un incubo. Il Catanzaro, in preda a continui e ingiustificati esoneri, non trova mai la bussola e retrocede. Ancora una volta, gode però di un ripescaggio, ma alla seconda stagione in cadetteria emergono tutte le falle di una società allo sbando.
Il 2005/06, se possibile, è peggio del 2004/05. L’US Catanzaro chiude ultimo, accumulando umiliazioni su umiliazioni. Ciò che è peggio, la società fallisce ed è costretta a ripartire dalla C2 con il nome di FC Catanzaro. Quell’unico anno di gloria, con Corona mattatore della C1, è costato caro alle aquile. L’attaccante, dal canto suo, è riuscito a mantenere un rendimento notevole nonostante intorno a lui tutto stesse crollando. Corona ha continuato a fare la differenza anche in Serie B, delle volte con gol spettacolari, rigorosamente al volo, come quello segnato al Rimini su un lancio di sessanta metri in cui Re Giorgio non ha nemmeno bisogno di guardare la porta per colpire.
Un centravanti così merita di rimanere in Serie B. La sorte, però, stavolta lo ripaga di tutti gli anni di gavetta trascorsi nei polverosi campi di Promozione: Lo Monaco, direttore sportivo del Catania appena salito in A, lo sceglie come primo acquisto per la nuova stagione. Finalmente Corona può dire di aver scalato tutte le categorie del calcio italiano. Insieme a lui, al debutto in Serie A, c’è anche Pasquale Marino, che ritrova dopo l’annata in D a Milazzo. Si tratta definitivamente della chiusura di un cerchio.
A questo punto, dovreste saperlo, nemmeno adattarsi al piano più alto è un problema. Alla prima giornata, in casa del Cagliari, il Catania tiene bene il campo, ma il risultato non si sblocca. Al 55’ Mascara alza un campanile sul limite dell’area. Un difensore sardo respinge, ma la palla cade proprio verso Corona, appostato ai venti metri. Re Giorgio calcola i passi, osserva il pallone scendere e con il collo del destro lo spedisce, con un colpo d’accetta, all’angolino basso del primo palo. Il portiere non può reagire, rimane di sale. Il Catania ritorna in Serie A con una vittoria e il suo attaccante, a trentadue anni, dimostra da subito di valere la categoria.
Arriveranno anche altre reti, alcune di pregevole fattura. Ad esempio, ne segna una all’Inter in cui, su un lancio, Cordoba prova goffamente ad arginarlo, rimanendo aggrappato alle sue spalle come uno zainetto; Corona sfrutta il contatto per girarsi, lascia rimbalzare la palla e supera Julio Cesar.
Il più speciale, però, lo segna a febbraio, quando per la prima volta Corona scende in campo alla “Favorita”, nello stadio della sua città, Palermo, per il derby di Sicilia. È lui ad aprire i giochi con un gol degno di Diego Milito: una sterzata che spezza le caviglie al campione del mondo Cristian Zaccardo e permette a Corona di battere indisturbato il portiere di piatto. Potrebbe sembrare una rivincita per i giorni in cui venne scartato, ma Corona non ha mai portato rancore al Palermo, che anzi ha ringraziato per l’occasione concessa. Quella sera, comunque, vinceranno i rosanero per 5-3: un derby spettacolare, macchiata però dal ricordo dell’omicidio del commissario Raciti a fine partita.
Corona a Castellammare, una vittoria per la gente
Il 2006/07 rimarrà la sua unica stagione in Serie A. Doveva essere solo il rincalzo di Gionata Spinesi, ma alla fine Corona si è rivelato pedina fondamentale per la salvezza della squadra di Marino. La carta d’identità però, non è più dalla sua parte. Così, a fine campionato il Catania lo cede per 700.000 euro al Mantova del presidente Lori, in Serie B. Corona ritenta la scalata alla massima serie con una squadra ambiziosa, che l’anno prima aveva perso la finale playoff contro il Torino.
Per una volta Re Giorgio abbandona il Sud Italia. Lontano dal suo regno, però, l’avventura non va come desidera. Alla fine dei suoi due anni in Lombardia, l’attaccante ha ormai trentacinque anni e decide di fare un passo indietro, tornando in Serie C al Taranto. Per Corona, però, si tratta di un altro anno interlocutorio in una squadra che non rispetta le attese: i rossoblu avrebbero dovuto competere per la vittoria del campionato e invece rimangono invischiati nella lotta per la salvezza. Per ritrovarsi, l’ex Brindisi deve aspettare la stagione 2010/11, quando si trasferisce in prestito alla Juve Stabia.
Dietro il suo acquisto, infatti, c’è Piero Braglia, suo mentore a Catanzaro e allenatore delle vespe. I gialloblu avevano vinto il precedente campionato di Serie C2 e avevano come obiettivo iniziale una salvezza tranquilla. Con un allenatore come Braglia e con una punta come Corona, però, si capisce da subito che le aspirazioni possono essere ben diverse. Re Giorgio, nonostante sia al primo anno in Campania, e peraltro solo in prestito, non fatica col suo carisma silenzioso a guadagnarsi la fascia di capitano. Segna 14 gol in 31 presenze e guida la squadra fino al quinto posto, l’ultimo valido per partecipare ai playoff.
In maniera sorprendente, la Juve Stabia batte il Benevento in semifinale. Ad aspettarla, in finale, c’è l’Atletico Roma (ex Cisco Roma). Dopo lo 0-0 del “Menti”, si decide tutto al “Flaminio”, nella capitale. La squadra di Braglia passa in vantaggio a fine primo tempo col difensore Molinari. L’Atletico Roma si infrange contro la difesa gialloblu, così a pochi secondi dalla fine, su un contropiede, Corona si ritrova occhi negli occhi col portiere avversario e, di sinistro, lo supera e manda la Juve Stabia in B dopo sessant’anni.
È una vittoria di grande valenza sociale, che va ben oltre il campo da gioco. Sono giorni difficili, quelli, per Castellammare. Fincantieri, infatti, minaccia di chiudere e di lasciare senza lavoro le migliaia di operai di una città che ha sempre avuto nell’industria navale il proprio cuore pulsante. Per le strade montavano forti le proteste, tanto che la squadra era scesa in campo con la scritta “Castellammare è Fincantieri” sul retro della maglia. Corona, ad anni di distanza, non dimentica la sofferenza degli stabiesi: «Dare una gioia immensa a quella città è stata una cosa fantastica, una delle soddisfazioni più belle della mia carriera».
L’amore trasversale per Re Giorgio
Come a Catania, nemmeno la Juve Stabia, però, decide di confermare Corona. Terminata la stagione in gloria, il bomber siciliano deve tornare al Taranto dal prestito. Per la Serie B, le vespe hanno altri piani e puntano su un attaccante in rampa di lancio come Marco Sau.
Re Giorgio, allora, prende una decisione drastica. A 37 anni ritorna lì dov’era iniziata la sua storia nel professionismo, a Messina. I peloritani, però, dopo il fallimento dell’estate del 2008 sono sprofondati in Serie D. In quel momento non ha più niente da chiedere alla propria carriera, ma è la devozione verso il gioco, con cui trascina di nuovo il Messina tra i professionisti, a sublimarne per sempre il nome nella leggenda del calcio di periferia.
Corona continua a segnare nonostante l’età e nella stagione 2014/15, in Serie C, a 41 anni, sigla ben 12 gol in 34 presenze: difatti, una leggenda ancora in attività. Quel Messina, però, avrà vita breve, vittima di passaggi societari poco chiari. Così, dopo una nuova retrocessione, Corona va via e chiude la carriera tra Serie D allo Scordia ed Eccellenza all’Atletico Catania.
Dopo il ritiro, Re Giorgio non ha cercato di ritornare nel calcio di alti livelli come allenatore o dirigente. Oggi collabora con la scuola calcio del Borgo Nuovo, piccola società di Palermo con cui aveva giocato da giovane, e si limita ad osservare da lontano i progressi di suo figlio Giacomo: a differenza del padre, il giovane Corona è riuscito ad entrare nelle giovanili del Palermo (nel 2022 ha anche esordito in prima squadra, in Serie C). Lui preferisce rimanere in disparte: non gli piace interferire col lavoro degli allenatori e nelle interviste dice che i genitori troppo pretenziosi sono una rovina per i calciatori in erba.
D’altronde, è sempre stato una persona estremamente riservata, che non ha mai provato ad arruffianarsi nessuna delle piazze che lo hanno accolto: uno di quei rari casi di trascinatore che non ha bisogno di proferire parola, né con i compagni né con il pubblico. Fulvio Paglialunga, in un bel pezzo dedicato all’attaccante di qualche anno fa, scriveva che «Corona non briga per farsi amare, però mostra gol (obiezione: anche altri sanno segnare) e carisma (ecco: questo non ce l’hanno tutti), e quindi scala naturalmente il gradimento fino ad arrivarne in cima, facendosi amare senza aver brigato». È per questo che, per tutte le città in cui ha giocato, Giorgio Corona è indimenticabile.
Parla per lui l’anno in cui è ritornato per un’ultima volta in Serie C col Messina. Corona si è ritrovato, da avversario, a giocare sia al “Ceravolo” di Catanzaro che al “Menti” di Castellammare. In entrambi i casi, da vero cavaliere più che da re, si è recato sotto le rispettive curve con un mazzo di fiori per gli ultras, mentre riceveva l’ovazione dello stadio. Per guadagnarsi l’affetto della gente, non per forza c’è bisogno di demagogiche dichiarazioni sull’attaccamento alla maglia.