Apre la porta del cuore, Julio Velasco, che non va però scambiata con la posta. Con la cassetta che resta sempre piena di lettere da leggere, che in alcuni casi si sono trasformate in telefonate (o messaggi) alle quali rispondere. Julio però non ha molto tempo per farlo, anche perché adesso è un uomo felice: la medaglia d’oro conquistata alle olimpiadi con la nazionale femminile è stata la chiusura di un cerchio per chi, una trentina d’anni fa, quella medaglia la vide da vicino, senza però riuscire mai ad afferrarla. E a mese e mezzo da quel trionfo ha deciso di raccontarsi una volta di più al Corriere della Sera, mostrando però l’uomo Julio prima che il tecnico Velasco.
- L'adolescenza negata, la fuga dal regime
- La pallavolo come ancora di salvezza
- La capacità di far rendere i fuoriclasse
- L'uomo senza filtri: una visione sempre coerente
L’adolescenza negata, la fuga dal regime
La sua in fondo è stata una vita da romanzo. Cominciata in un’Argentina ben diversa da quella che il mondo ha imparato a conoscere nel tempo. “Il tempo della dittatura ha reso un’intera generazione differente da ciò che era stata precedentemente. Nella vita della mia famiglia il colpo di stato ha inciso profondamente: mio fratello Luis venne rapito per un mese e mezzo, e quando tornò non era più lo stesso, tanto che morì giovane. Mio padre se n’era già andato e io e i miei fratelli siamo diventati uomini “da soli”, senza che nessuno ci potesse trasmettere certe cose.
È stata una prova dura. Ma la più dura fu quella di coesistere con un regime che toglieva diritti a tutti, arrestando gente in modo illegale, uccidendo mamme e poi vendendone i figli. Io riuscii a starne alla larga trasferendomi a Buenos Aires, ma facendolo sottotraccia. Lì sapevo che sarebbe stato più facile mescolarmi e non dare nell’occhio, anche perché da giovane studente ero stato attivista anche nel mondo dei centri sociali e della politica, militante nel partito comunista rivoluzionario, e quindi potevo essere un bersaglio”.
La pallavolo come ancora di salvezza
Da La Plata a Buenos Aires non fu un viaggio semplice. “I primi due anni furono durissimi. Per mantenermi facevo di tutto, anche le pulizie: pulivo i vetri di una banca e detestavo quando i clienti entravano spingendo il vetro, e non la maniglia. Li ho imparato a rispettare il lavoro manuale e a guardare le cose dal punto di vista degli altri”.
Poi, tra un lavoretto e l’altro, arrivò la pallavolo. “Al Defensor de Banfield, un comune della città dove è nato anche Zanetti. Allevano i bambini di 10-12 anni, poi mi sono trasferito al Ferro Carril Oeste, dove seguivo quelli di 13-14 anni. Quando si liberò il posto in prima squadra, la dirigenza volle offrirlo a me. Non ero convinto, ma alla fine accettai dietro insistenza di un dirigente che stimavo molto”. Arrivarono quattro scudetti di fila, “ma io volevo allenare i ragazzini: la felicità è dove ti trovi bene”.
La nazionale argentina lo volle inserire nello staff, affidandogli la parte atletica. “C’era un CT sudcoreano, che però non allenava mai. Facemmo una tournee in Europa lunga più di due mesi, fu un’esperienza che mi arricchì molto”. Un paio di giocatori di quell’Argentina giocavano a Jesi e nel 1983 suggerirono alla dirigenza di andare a pescare quel giovane Julio che sarebbe costato poco, ma che avrebbe potuto rendere tanto. “Andai, più per la curiosità che per altro. Due anni dopo stavo già festeggiando il primo di 4 scudetti consecutivi a Modena”.
La capacità di far rendere i fuoriclasse
La storia del Velasco allenatore è nota a tutti, tra successi, trionfi e qualche delusione cocente (“L’argento di Atlanta 1996 è stata l’unica medaglia olimpica che non è stata festeggiata da nessuno in tutta la storia dello sport italiano”). Come sia riuscito a farsi sempre seguire da giocatori e giocatrici non è un mistero. “Con l’empatia. Devi capire chi è l’altro e motivarlo non con la tua, ma con la sua motivazione. Socrate con le domande faceva ragionare, guidava le persone…”.
Lo ha fatto con la generazione dei fenomeni degli anni ’90, lo ha fatto più di recente con una nazionale femminile uscita con le ossa rotte dall’estate precedente, battendo sul concetto di “qui e ora”. “Chi gioca deve decidere ogni volta cosa fare, ad ogni punto. Non deve pensare a quello prima o a quello dopo, altrimenti dovrebbe convivere con dei dubbi che lo porterebbero fuori strada. Alle ragazze dicevo di essere autonome e autorevoli, ma che dovevano dimostrarlo ad ogni singola azione. La gente va al Luna Park per stare male? No, va al Luna Park per sentire un’emozione forte. E l’olimpiade è la stessa cosa”.
L’uomo senza filtri: una visione sempre coerente
Velasco ha sempre detto ciò che pensa, spesso senza filtri. Tenendo sempre un po’ di distacco con gli atleti allenati (“Non puoi essere come il genitore che va a ballare alla festa del figlio”), ma difendendoli sempre e in ogni luogo. E sulle differenze tra l’allenare uomini o donne, il cerchio l’ha ristretto in fretta: “Il mondo è ancora maschilista, ma le donne hanno il terrore di sbagliare, forse perché in passato se lo facevano venivano punite con le botte dagli uomini. Per questo a volte vanno incoraggiate, ma sanno imparare straordinariamente in fretta. E la loro rivoluzione sta avanzando silenziosa: sapete perché nei bagni degli aeroporti c’è sempre la fila a quello delle donne? Perché l’hanno progettati gli uomini, senza tenere conto del fatto che loro, le donne, necessitavano di più spazio”.
Di politica non parla (“Sono ancora di sinistra, non più comunista, ma ho un ruolo e non è giusto parlarne”), anche se non capisce chi possa andare dietro a Vannacci. “Salvini dice che l’Italia è il Paese che concede più cittadinanze? Vero, ma perché vige il diritto del sangue. Ci sono ragazzi nati in Italia che, se non diventano italiani prima dei 18 anni, rischiano di non poterlo diventare. Sarebbe potuto capitare anche a Sylla ed Egonu”.