Sono passati più di 23 anni da quel tragico 1° maggio del 1994, quando a Imola perse la vita Ayrton Senna.
Adrian Newey non sa ancora darsi pace, come spiega nel suo nuovo libro “How to build a car”: “Che sia stato il piantone dello sterzo o meno a provocare l’incidente di Ayrton cambia poco: resta il fatto che quella macchina nacque da un cattivo progetto e non avrebbe mai dovuto scendere in pista – scrive Newey parlando dell’incidente di Imola – e io ero uno degli ingegneri del team che progettò una macchina dentro la quale morì un grande uomo. Sentirò sempre una certo grado di responsabilità per la morte di Ayrton”.
“Quello di cui mi sento responsabile – precisa – è aver rovinato l’aerodinamica di quella macchina» rendendola difficile da guidare e costringendo quindi Senna a spingere oltre il limite. «Sono stato ingannato dalla transizione dalla sospensione attiva a quella passiva e ho disegnato una macchina aerodinamicamente instabile: Ayrton provava a fare cose che quella vettura non era capace di fare”.
Senna si era costruito il suo riscatto a costo di tante fatiche e rinunce, da quando aveva detto di no a una vita agiata nella sua San Paolo per costruirsi una carriera piena di incognite nella gelida Gran Bretagna, senza l’approvazione del padre. Lo stesso padre che gli aveva messo in mano il destino, regalandogli un go kart quando il piccolo Ayrton a stento sapeva camminare.
Da lì era stata una lunga corsa verso l’alto. Con la feroce ambizione di diventare il numero uno. Senna, per esempio, odiava guidare sotto la pioggia e odiava il fatto che il suo collega Fullerton – ai tempi dei kart – andasse più forte di lui sotto l’acqua. Si allenò tanto da diventare il migliore di tutti quando le condizioni climatiche si facevano impraticabili. Chiedere a chi, a Donington 1993, perse la bussola tra infiniti cambi di pneumatici mentre quel casco giallo dentro una McLaren che imbattibile più non era guardava in una sola direzione: in avanti.
In avanti dove, lo stesso casco giallo, guardava a Montecarlo nel 1984. Era all’interno di una Toleman, una macchina che poco più di un anno dopo non sarebbe più esistita. Ma che con Senna a bordo sfidò gli eroi dell’epoca e li avrebbe battuti, se la politica (uno dei peggiori nemici di tutta la sua carriera) non si fosse messa di mezzo.
Senna rappresentava l’eroe solitario, l’uomo che vince contro il sistema, contro gli avversari e contro i suoi limiti. Guidato (perché no?) da quel senso mistico che lo pervase a Montecarlo 1988, dopo un erroraccio che gli costò la corsa (e – a posteriori – un pazzesco filotto di sette vittorie di fila al Principato). Senna quando si metteva al volante non si sentiva solo, si sentiva addosso una luce che lo accompagnava. E continuava la sua corsa, sempre verso l’alto.
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