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Marco Pantani, un amore che non conosce fine: 20 anni dopo la sua eredità è ancora preziosa

A 20 anni dalla morte, Marco Pantani continua a essere un punto di riferimento per tanti appassionati di ciclismo. Perché sapeva emozionare come nessun altro.

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Roberto Barbacci

Roberto Barbacci

Giornalista

Giornalista (pubblicista) sportivo a tutto campo, è il tuttologo di Virgilio Sport. Provate a chiedergli di boxe, di scherma, di volley o di curling: ve ne farà innamorare

Venti anni sono volati via in un soffio, un po’ come era solito fare lui: scattando in salita, facendo il vuoto dietro di sé. Ma Marco Pantani è più vivo che mai, nel cuore della gente che gli ha voluto bene, di chi ancora oggi si esalta al pensiero delle imprese sulle vette alpini, dolomitiche e pirenaiche, quelle che l’hanno consegnato alla storia e reso immortale agli occhi di intere generazioni.

Un campione che sapeva emozionare

Nel giorno in cui si celebrano gli innamorati, Marco Pantani testimonia quanto l’amore possa attraversare mondi ed epoche lontane, restando però fedele a ciò col quale s’era rivelato. Vent’anni dopo, il suo lascito resta tangibile: l’Italia del ciclismo da allora ha avuto tanti fuoriclasse del pedale (si pensi a Paolo Bettini, Ivan Basso e Vincenzo Nibali, giusto per citare i più illustri), ma mai nessuno che abbia saputo emozionare come faceva Pantani, per il quale milioni di italiani in un caldo pomeriggio d’estate mollavano tutto, pur di restare incollati davanti alla tv (a volte in stanze senza condizionatore) per spingerlo verso una delle sue tante imprese. Perché la gente aveva e ha ancora oggi bisogno di emozionarsi, e col Pirata il cuore batteva a mille all’ora, spinto da una forza capace di superare qualsiasi avversità.

L’ultima doppietta Giro-Tour e “l’artigiano della bicicletta”

Di Pantani, prima e soprattutto dopo quel maledetto sabato 14 febbraio 2004, s’è detto e scritto fin troppo. Il fatto che da 25 anni a questa parte nessun altro corridore sia mai riuscito nell’impresa di vincere Giro e Tour nello stesso anno (quest’anno ci proverà Tadej Pogacar) dimostra quanto quell’impresa fosse davvero fuori dal tempo, destinata appunto a restare un unicum per tante stagioni.

Ma Pantani non era solo vittorie, peraltro poche se si considera la sua grandezza (46 in 11 stagioni da professionista): gli appassionati lo ammiravano per il coraggio e la sfrontatezza che aveva nel contrastare avversari che lucravano sulle corse contro il tempo, cercando poi disperatamente di difendersi in salita. E la gente comune, quella che seguiva il ciclismo sporadicamente o più spesso per sentito dire, veniva calamitata dentro quel mondo, perché quel ragazzo senza capelli e con le orecchie a sventola trasmetteva empatia al primo sguardo.

Pantani era davvero uno del popolo, un “artigiano della bicicletta”, uno che rifiutava di affidare la propria carriera a tabelle o computer, ma che si fidava solo del suo istinto. E piaceva proprio per questo suo essere vero, schietto e sincero.

Sapeva che da solo non sarebbe stato nessuno

Chiaro che la fine della vita terrena di Marco abbia finito per sdoganarne oltremisura anche la “mitizzazione” agli occhi delle nuove generazioni. Pantani ha corso in un’epoca in un cui il ciclismo viveva davvero i suoi anni “di piombo”, intesi come gli anni nei quali pratiche oscure e tentativi di aggirare le regole erano all’ordine del giorno.

Pantani però quel ciclismo in parte l’ha salvato: il Tour del ’98, quello che lo vide arrivare in giallo a Parigi, senza il suo carisma e il suo coraggio non sarebbe mai potuto arrivare a conclusione. Accettò di mettere tutto in discussione appoggiando la protesta dei corridori, decisi a non partire da Albertville nel giorno della 17esima tappa dopo i continui controlli ad orari impossibili e l’ossessiva pressione dell’opinione pubblica sui tanti casi di doping scoperchiati durante la corsa. Sapeva che da solo non sarebbe stato nessuno, ma quei colleghi che in qualche modo beneficiarono della sua luce riflessa furono gli stessi che (salvo rare eccezioni) gli voltarono le spalle, invidiosi dei suoi trionfi e del fatto che tutti i riflettori si posassero sulla sua bandana.

L’eredità del Pirata nel ciclismo di oggi

Il fatto che Marco sia morto da solo, in una stanza di un residence di Rimini (che non esiste più: oggi quella struttura è divenuta un centro benessere, subendo un poderoso intervento di ristrutturazione), testimonia quanto quel mondo lo abbia abbandonato. Avrebbe trovato milioni di case pronto ad accoglierlo, ma decise di voler sfuggire a quei riflettori che tanto aveva detestato, fino ad arrivare a odiare quel mondo al quale però aveva dato ancora una speranza per restare in vita.

Forse è esagerato affermare che il ciclismo di oggi è figlio anche di quanto lasciato in eredità dal Pirata, ma pensando alle gare (specialmente i grandi giri) e agli interpreti attuali, di sicuro tutto questo sarebbe tanto piaciuto a Marco. Che amava le sfide e flirtava col coraggio, anche a costo di perdere la faccia. E che a distanza di 20 anni da quel maledetto San Valentino del 2004 trova ancora il modo per far innamorare tanti appassionati, specialmente chi ne ha sentito parlare solo nei racconti di genitori e nonni. Vittoria più bella di questa, mai avrebbe potuto esserci.

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