Se ci fosse da scegliere tra una partitella a basket al campetto con gli amici o una corsa di cavalli da seguire a bordo pista, non sorprendetevi se Nikola Jovic scegliesse la seconda opzione. Sarebbe una scelta perfettamente calzante con il personaggio, anzi: l’anti-personaggio.
A lui le luci della ribalta non sono mai piaciute: preferirebbe di gran lunga starsene in disparte e pensare ai fatti suoi, piuttosto che rimanere accecato dai flash dei fotografi o peggio ancora sordo per le urla dei fan. Basti pensare che, pochi secondi dopo aver vinto il suo primo titolo NBA in carriera con Denver, salutati tutti i giocatori avversari ha preso la via della tribuna, andandosi a godere l’abbraccio dei familiari presenti, tutti piangenti e commossi, mentre lui aveva il solito ghigno col quale ha abituato a mostrarsi al mondo intero. Una faccia vera, sincera, senza maschere: che si vinca o si perde, l’espressione sul volto di Nikola sarà pressoché la stessa.
- La passione per i cavalli e l’allergia ai riflettori
- I numeri che hanno conquistato l'Nba
- Lo spot (fortunato) del burrito
- Il premio in una... stalla
- Tanti saluti a chi non ci credeva
La passione per i cavalli e l’allergia ai riflettori
Quel che è cambiato, e in tanti se ne sono accorti, è il suo impatto sul parquet, che l’ha portato a smentire i tanti detrattori da tastiera che un paio di mesi fa prefiguravano per lui la solita corsa “breve” nella post season. Perché il talento di Jokic sino ad oggi aveva brillato soprattutto (sarebbe meglio dire soltanto) durante la stagione regolare, che pure nell’immaginario collettivo somiglia tanto a una “corsa di riscaldamento”, tanto per usare un termine coniato dall’ippica (a lui tanto cara).
Due titoli di MVP accolti con scetticismo dalla grande America, che a fatica si lasciava sedurre da un lungagnone serbo di poche parole, con la passione per i cavalli e un’allergia piuttosto evidente ai riflettori. Che poi fosse un simpaticone, questo nessuno lo metteva in dubbio: guascone quanto basta, ma con modi gentili e pacati. Insomma, non uno da far scaldare il cuore del mondo del marketing, sempre attento a cogliere l’essenza più profonda di ogni singolo atleta (tradotto: ci piace tanto chi ci fa diventare ricchi).
La credibilità dei Denver Nuggets, però, era pari a quella di Jokic, etichettato con il perdente annunciato di ogni corsa play-off che si rispetti: dopo due campagne fallimentari (2021 e 2022), niente e nessuno avrebbe mai pensato che le cose avrebbero preso una piega differente quest’anno, specie dopo ave rivisto i Lakers risorgere nel periodo post All Star Game e i soliti noti (Warriors, Grizzlies e soprattutto Suns) calare assi in pompa magna per ambire a mettere al dito l’anello.
I numeri che hanno conquistato l’Nba
La verità, che fa male ma non mente, è che tutto il mondo NBA dovrebbe chiedere scusa ai Nuggets. E in particolar modo a Jokic, che pure (statene certi) delle scuse della gente non saprebbe proprio cosa farsene. Denver ha vinto perché ha giocato meglio, mostrando una chimica di squadra vera e duratura.
Una squadra diversa rispetto al passato, perché finalmente presentatasi al completo (Murray era mancato per infortunio in entrambe le corse precedenti) e soprattutto perché capace di infischiarsene delle critiche e delle etichette loro affibbiate in corso d’opera.
Jokic ha riscritto la storia chiudendo le 20 gare play-off con medie clamorose mai registrate prima, unico giocatore della storia della post season con almeno 500 punti segnati, 250 rimbalzi catturati e 150 assist sfornati per i compagni (numeri finali: 600, 269 e 190). E ha fatto sembrare tutto facile come bere un bicchier d’acqua, rimarcando sempre il valore dei compagni e rispettando sempre gli avversari, che le hanno provate tutte per arginarne lo strapotere fisico e (soprattutto) mentale.
Da decenni non si vedeva un lungo così
Sono passati più di 20 anni dall’ultima volta che un centro aveva conquistato il Bill Russell Trophy, il premio di MVP della serie finale: Shaquille O’Neal ne mise tre in fila dal 2000 al 2002, uno per ognuno dei tre titoli targati Lakers, con Phil Jackson allenatore.
Jokic ha rimesso i centri al centro della scena, cosa non scontata in una pallacanestro che nel frattempo è evoluta a tal punto da cambiare la sua stessa essenza, con lo small ball di stampo Warriors che ha fatto proseliti e i “vecchi” centri lasciati al loro destino in mezzo al pitturato.
Ma Nikola è stato grandioso nell’interpretazione di un ruolo che lui stesso ha contribuito a stravolgere: da decenni non si vedeva un lungo segnare, assistere i compagni e (in alcuni casi) anche fungere da vero e proprio playmaker della squadra.
Lo spot (fortunato) del burrito
Un giocatore unico nel suo genere, partito dalla lontana Serbia dove è nato nel 1996 a Sombor, piccolo sobborgo vicino al confine con Ungheria e Croazia. La passione per il basket è andata di pari passo con quella per i cavalli, che pure però è forse superiore, pensando alle sue abitudini extra campo.
Nel 2014, dopo un paio di anni alla Mega Basket (squadra di Belgrado), venne selezionato alla numero 41 del Draft NBA dai Denver Nuggets. La sua chiamata fu persino “silenziosa”: mentre il commissioner Adam Silver annunciava il suo nome, la diretta della trasmissione era stata interrotta a favore di uno spot pubblicitario di un burrito, e il nome del serbo (che la leggenda vuole che stesse dormendo: in Europa era pur sempre tarda notte…) passò soltanto in sovraimpressione.
Il massimo per uno che i riflettori, come detto, li ha sempre evitati. Negli anni Jokic s’è creato una propria dimensione all’interno della lega, seppur sottovalutata al netto dei due titoli di MVP di regular season vinti nel 2021 e nel 2022 (quest’anno è stato battuto per un’inerzia da Joel Embiid).
In molti gridarono allo scandalo lo scorso luglio, quando firmando un quinquennale da 270 milioni di dollari mise la firma sul contratto più alto di tutti i tempi. Meno di un anno dopo, però, qualcuno s’è dovuto nuovamente ricredere: quei soldi Denver l’ha spesi benone, e Jokic magari avrà già cominciato a reinvestirli nei cavalli.
Il premio in una… stalla
Se Gareth Bale aveva messo il golf prima del calcio, Nikola non è voluto essere da meno: l’ippica è e rimane il primo amore, quello che gli farà “perdere” giorni di vacanza nelle prossime settimane solo per il gusto di acquistare qualche nuovo purosangue e godersi un po’ di corse con gli amici di sempre.
Negli ippodromi internazionali la sua presenza in estate è fissa: è stato avvistato anche in Italia lo scorso anno, e probabilmente accadrà la stessa cosa anche nelle prossime settimane. Davanti a una stalla, nel maggio del 2022, Jokic concordò di organizzare la consegna del premio di MVP, trasmessa in diretta da TNT, presentandosi in canotta, bermuda e ciabatte.
E chi assistette alla scena poté notare anche il fatto che qualche buona birra scorresse nelle sue vene, a riprova di festeggiamenti già inaugurati da tempo, con coach Mike Malone atterrato appositamente a Sombor per complimentarsi con il ragazzo che di là a poco gli avrebbe cambiato la carriera (le avvisaglie c’erano tutte).
Tanti saluti a chi non ci credeva
Da bambino, Jokic era il classico ragazzo paffutello che sognava di poter diventare qualcuno, ma sul quale davvero nessuno avrebbe mai scommesso un euro.
Bevevo tre litri di Coca Cola al giorno, non ero un modello di buona educazione alimentazione.
Proprio il fatto di essere sovrappeso convinse il Partizan Belgrado a scartarlo durante uno dei tanti provini fatti negli anni dell’adolescenza. Anni resi celebri soprattutto da un post pubblicato su Facebook il 7 febbraio 2011, quando a Sombor probabilmente faceva freddo, ma quando nessuno rispose all’appello lanciato dal giocatore:
Qualcuno ha voglia di giocare a basket?
chiese Nikola, senza ottenere alcun commento di risposta. Oggi a un post simile vorrebbero rispondere milioni di persone, le stesse che indossano fieri la canotta numero 15 dei Nuggets che una volta era di Carmelo Anthony, che peraltro pregustava già di vederla ritirata per meriti acquisiti sul campo. Ma adesso a Denver cosa s’inventeranno?
Di sicuro il 15 non l’indosserà più nessuno al di fuori del “Joker”, così ribattezzato da Mike Miller, ex compagno ai Nuggets, per via di una malcelata somiglianza al personaggio della serie di Batman, un al quale piace sempre scherzare e che ha voglia di divertirsi sempre.
Uno che adesso che ha messo un anello al dito potrà pensare anche un po’ di più a godersi la moglie Natalija (la fidanzata dei tempi delle superiori) e la piccola Ognjena, nata nel settembre del 2021, ma già immortalata accanto al premio di MVP durante la cerimonia di fine partita. Una botta di popolarità non nello stile di Jokic, che ha festeggiato con un tuffo nell’idromassaggio con Murray. E tanti saluti a chi non ci credeva.