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QAlex 20k Alex Schwazer ad Arco di Trento per l’ultima 20 km di marcia della carriera. Perché ci sarò

Scontata la squalifica, conclusa lo scorso 7 luglio, il marciatore saluta l'atletica e il professionismo con una marcia di 20 km e giuria regolare. Gareggerà per la prima volta davanti ai figli

Pubblicato:

Auden Bavaro

Auden Bavaro

Giornalista

Lo sporco lavoro del coordinamento: qualcuno lo deve pur fare. Eppure, quando ha modo di pigiare le dita sulla tastiera, restituisce storie e racconti di sport che valgono il biglietto

Se il ritorno alle gare di Alex Schwazer coincide con l’ultima in carriera del marciatore vipitenese, significa finire a parlare di simbologia. La seconda squalifica per doping al campione olimpico di Pechino 2008 si è conclusa lo scorso 7 luglio.

Crono perfetto o diabolico che gli ha negato l’opportunità di chiuderla diversamente. A Parigi, per esempio, mica ad Arco di Trento. Invece, per archiviare il professionismo di Schwazer è servito il piano B. QAlex 20k: una festa in mezzo a chi ha voglia di esserci organizzata da Queen Atletica, venerdì 19 luglio, inizio gara alle 19.30.

Quando Schwazer è stato capace di unire

Adesso non è più questione di torto o ragione. Alex la finisce qua: toglie il disturbo una settimana prima dei Giochi francesi. In questi anni c’è stato di tutto. Anche una docuserie su Netflix, per dire. Pure il Grande Fratello, per non farsi mancare niente. È stato capace di unire: se fai sacrifici e sudi, alla gente non serve scavare troppo più in profondità per trovarci il cuore. È la natura umana.

Oppure, detta altrimenti: quando fai il furbo e provi a fregare, la gente non ha bisogno di sapere se c’è, o meno, di mezzo il morto. È l’indole umana. Ancora, in altri termini: se la conseguenza di un tonfo – specie di quelli che ti fanno picchiare la testa forte – è una ripartenza di carattere, umiltà e abnegazione, allora alla gente viene facile svestire i panni dell’inquisitore. È un riflesso condizionato e umano, umanissimo.

Alex ha fatto del male solo a se stesso

Continuo a parlare della gente anche se la verità è che Schwazer ha fatto del male a se stesso e a nessun altro. Ha rinunciato per superficialità e chissà che altro a un grande talento e ai doni di Madre Natura. S’è frantumato gli anni più belli, i giorni del pieno vigore. Dicono di lui – anche i detrattori della primissima ora – che aveva il potenziale per diventare il più grande di sempre nella sua disciplina. Che è disciplina per eccellenza. A chi ha dato retta? Ha fatto tutto da solo? Colpa dei russi o dei medici? È stato il sistema? Fanno tutti così?

No. Per fortuna non fanno tutti così. Questo è quello che ha fatto Alex. La storia di Schwazer è solo sua. Ne doveva – e l’ha fatto – rispondere in prima persona. L’immagine di un viso implume a dispetto dei ventotto anni, e pieno di lacrime, in una sala triste e desolante, mentre confessa il doping, è l’archivio fotografico che ci portiamo dietro insieme a qualche altro fotogramma. La smorfia incline al pianto e al dolore, per esempio, col dito che tende verso l’alto, mentre sta per terminare l’ultimo metro dei 50 km olimpici tinti d’oro. Poi s’è messo in ginocchio a guardare e toccare il cielo. Senza smettere di piangere.

Una storia di lacrime: nella gioia e nel dolore

Fino a un certo momento, è stata una storia di lacrime, quella di Schwazer: hanno condito gli attimi felici e pure quelli tristi. S’è fatto del male da solo, Alex. Ma se non parlo solo di lui – e continuo a tirare in mezzo la gente – è perché nessuno può costringersi alla vita disciplinata cui si costringono gli sportivi più grandi senza dialogare implicitamente, tacitamente, a sguardi e gesti, con gli altri. Che diventano la sua gente. Ci si fa il culo e si trovano motivazioni inimmaginabili anche grazie alla propria gente.

Chi si è sentito tradito da Schwazer

Continuo a parlare della gente ma – lo so bene – dovrei eludere il tranello e limitarmi a parlare di Schwazer. Però è accaduto che mentre Alex tradiva solo se stesso, si sono sentiti traditi in tanti. Io, che pure ho scaldato l’anima e mi sperticavo in lodi per Alex Schwazer quando ero un ragazzo come lui, non l’ho vissuta così. Non mi sono sentito tradito. Neanche un po’.

Perché non esiste solo la narrazione del mainstream: spesso diventa artificio, ricalca stereotipi socio culturali che nella vita vera e nella quotidianità non trovano corrispondenza. E se, unidirezionalmente, saccenti tuttologi santoni giacchincravattati esaltano l’arte di vincere quale senso tanto lineare quanto estremo dell’esistenza, la verità spesso la contano da Dio i disgraziati. Quelli che dicono tutto. Anche di avere sofferto e sbagliato.

Di poeti, però, ce n’è sempre meno e le poesie non le legge più nessuno. Nemmeno Schwazer, almeno il primo Schwazer voglio dire, l’atleta pronto a prendersi il mondo, m’è mai parso tipo da poesie. Semmai, prototipo esemplare del vincente a ogni costo: figlio e figliastro prediletto della finzione mainstream. Chissà se dopo, parecchio tempo dopo, Alex abbia mai letto Elizabeth Bishop e l’arte di perdere.

Il momento della confessione: quello in cui l’ho sentito più vicino

Non mi sono mai sentito tradito da Schwazer che, semmai, ha fatto del male a se stesso e, indirettamente, quegli errori si sono riversati giusto sugli affetti più cari, mica sul mondo intero. Mica su tutti gli altri sportivi. Eppure la sensazione altrui, legittima o no, di essere stati ingannati va compresa. Sempre, anche quando non giustifica le altre reazioni a catena: nessuna impresa avrebbe sapore se non fosse condivisa. Non ci sarebbe incanto senza qualcuno disposto a incantarsi.

A titolo personale, il momento in cui – più degli altri – mi sono sentito assolutamente vicino a Schwazer è stato quello della confessione. Quanti altri – nello sport, nella vita, sul lavoro, in famiglia, tra amici o tra nemici – lo fanno? Ha chiesto scusa, ha pagato tutto, per me basta così.

Perseverare o infierire, mi sono chiesto: cos’è peggio?

La seconda volta è stata diversa. Perseverare o infierire, mi sono chiesto: cos’è peggio? Cosa speri: meglio credere in una ricaduta o in un complotto? Credo sia la domanda che, con sfaccettature differenti, si sono fatti in tanti. Torna sempre: la gente.

Ecco, da lì in poi la storia di Alex ha cominciato a dividere. Se da una parte ci sono Istituzioni, potere e accuse mentre dall’altra persistono inchieste, smentite e controprove la gente si confonde, non capisce più e si insinuano i dubbi. È nell’ordine delle cose.

Oppure, detta altrimenti: quando si cammina in equilibrio precario tra il lecito e l’illecito, fatti e illazioni, laboratori e sviamenti alla gente viene facile schierarsi, prendere posizione e credere a prescindere. È un riflesso condizionato e umano.

Ancora, in altri termini: se la Giustizia penale e quella sportiva viaggiano in direzioni divergenti, se le certezze degli Enti preposti si scontrano con gli interrogativi di uno come Attilio Bolzoni, se la credibilità e l’autorevolezza del sistema si contrappongono a quelle di uno come Sandro Donati, la gente si accampa in un purgatorio. Per necessità umana, umanissima.

Una partita a due tra il marciatore e l’Agenzia

Ecco. Da lì in poi la storia di Alex è diventata divisiva. Sono tante le stranezze e le anomalie degli ultimi anni: se metti sulla bilancia quello che torna e quello che proprio non torna mai, i due piatti reggono un peso che si somiglia. Ed è diventata divisiva, la storia di Schwazer, dal momento in cui lo scontro – impari – tra due verità opposte e strenuamente, vicendevolmente sostenute s’è fatta partita a due tra il marciatore e l’Agenzia.

È diventata divisiva, la storia di Alex, non solo a causa sua ma per gli stessi motivi per i quali ogni sistema di potere è per propria natura divisivo. Per inciso: gli errori del singolo che ricadono solo e soltanto su di lui sono innocui perché tendono esclusivamente a una incidenza personale e soggettiva; quelli di un gruppo associato non lo sono quasi mai, innocui, perché incidenti rispetto alla pluralità, alla società.

Ci si mette un giorno o poco più a scavare in profondità nella vita di una persona e sbandierarne anche il superfluo, molte volte non basta una vita per indagare eventuali storture che avvengono ai piani altissimi. La storia di Alex è diventata divisiva quando non si è più trattato di fatti da beghe di cortile, questioni di vicinato, liti stradali, elementi fattuali lineari.

Tanto basta per negare, perdere o incrinare la fiducia nelle Istituzioni o negli Enti preposti? No, probabilmente no. Ma non aiuta neppure ad attivare il processo inverso: conservare un approccio fideistico nei confronti di quegli Enti, di quelle Istituzioni, di quei sistemi.

Non è ancora una storia al passato

Ha tutto il diritto, Schwazer, di proseguire la sua vita come più gli è necessario. Sentirsi padre, girare il mondo, metter su una fattoria, insegnare qualcosa a qualcuno, sognare la follia dei Giochi del 2028, leggere un libro al mese, imparare le lingue, cimentarsi nel marketing, fare televisione, godersi l’orto, perseguire nella sua personalissima ricerca della verità o chissà che altro.

Continuerà a essere solo la sua storia. Futuribile e non d’archivio. Che non è la semplificazione riportata nell’incipit della biografia di Schwazer su Wikipedia:

marciatore italiano campione olimpico della 50 km a Pechino 2008, squalificato per doping fino al 2024.

No. Non è una storia al passato, quella di Alex né il suo ritorno alle gare, coincidente con l’ultima volta, un modo per celebrare quello che è stato o che non è mai stato e sarebbe potuto essere.

Esserci, sì. Per salutare un ragazzo di 39 anni e ricordargli di avere cura e rispetto di se stesso e del dono – più grande del talento – che è la vita. È tutto in divenire, all’età di Schwazer, e la proiezione di sé resta ancora più importante della percezione di sé.

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