Qui la domanda sorge spontanea: è soltanto invidia o c’è un po’ di ironia e provocazione nelle parole di Yevgeny Kafelnikov? Interrogativo lecito, perché a sentir parlare il russo, oggi 50enne, ma in passato numero uno del ranking ATP per sei settimane, verrebbe voglia di alzare i tacchi e chiudere la conversazione. Perché il vincitore dell’oro olimpico di Sidney 2000, nonché di due tornei dello slam (Roland Garros 1996 e Australian Open 1999), sembrerebbe averla sparata un po’ troppo grossa. Altrimenti come si potrebbe definire uno che afferma che “Sinner è unidimensionale, creato solo per colpire forte la palla?”.
Quel paragone con Hrbaty e Johansson…
Kafelnikov l’ha detto in un podcast piuttosto seguito (Best Tennis), al quale invero ha riservato anche altre “perle di saggezza”. Come quando ha ammesso di aver giocato “più e più volte dopo aver fatto la notte in bianco in qualche club. Insomma, ai miei tempo capitava spesso di andare in campo dopo una sbronza. Il corpo era giovane e smaltita l’alcol velocemente, è stata una costante in tutta la mia vita. E non soltanto nella mia, ma in molti dei miei colleghi dell’epoca”.
Chissà però se quel vizio non gli sia rimasto anche in questa “seconda” vita, quella dove si diletta a essere “opinionista” e attento osservatore delle dinamiche del tennis moderno. Così attento da declassare Sinner a un qualunque Hrbaty o Johansson. “Personalmente la vedo così. Lo ritengo una versione più moderna e modificata di Hrbaty (ex numero 12 del mondo) e Johansson (numero 7, con un Australian Open in bacheca).
Djokovic ha tanti colpi nel suo arsenale, può giocare sia in attacco che in difesa. Sinner no, lui ha solo un modo di giocare ed è progettato unicamente per colpire. Alcaraz gli è di gran lunga superiore: per potenzialità tecniche non ha nulla da invidiare a Djokovic, Federer e Nadal”.
Kafelnikov l’ha sparata grossa (e forse lo sa)
La provocazione di Kafelnikov è tale da farla sfociare subito in una realtà illogica e senza senso. Perché paragonare Sinner a Hrbaty e Johansson è francamente troppo: loro colpivano bene da fondo campo, ma con l’altoatesino hanno oggettivamente poco altro in comune. Anche perché la gamma di opzioni di Jannik è diventata talmente ampia che solo pensare a un simile paragone rischia di rivelarsi un boomerang.
Dalle parole del russo (che in Italia molti ricordano in campo nella storica sfida di Davis del 1996 a Roma, quando l’Italia di Furlan, Gaudenzi e Nargiso batté la favoritissima Russia per 3-2) traspare semmai una sorta di fastidio nel vedere l’italiano tanto competitivo e forte su tutte le superfici. Forse gli serviva un po’ di quella popolarità perduta tra un torneo di poker e di golf (dove è arrivato sempre ultimo), le due “passioni” alle quali s’è dedicato una volta chiusa l’avventura nel tennis professionistico.