Un hombre vertical. Così Diego Maradona chiamava Antono Juliano, il dirigente che riuscì a strappare al Barcellona il Pibe de Oro e a far vivere a Napoli l’era più bella e vincente della sua storia. E’ morto a 80 anni Juliano, un mito da giocatore ma entrato nella leggenda anche come dirigente. Era malato da tempo ma negli ultimi tempi le sue condizioni erano peggiorate. Ricoverato in ospedale, non ce l’ha fatta e lascia un vuoto enorme non solo a Napoli.
- Juliano un predestinato, i primi calci per strada
- La rottura col Napoli e l'ultima stagione al Bologna
- Juliano e la Nazionale, gioie e dolori
- Il primo ritorno a Napoli da dirigente
- La seconda chance in azzurro
Juliano un predestinato, i primi calci per strada
Nato a Napoli il 26 dicembre 1942, in tempo di guerra, viene registrato dai genitori all’anagrafe il 1° gennaio 1943 e presto conosce il suo giocattolo preferito. Quel pallone che gli faceva compagnia a San Giovanni a Teduccio dove si era trasferita la famiglia, di origini irpine. Dovettero lasciare la località per colpa del piccolo Totonno che sfasciava l’edicola votiva della Madonna dell’Arco. «Nel rione tutti sapevano che spesso la sfasciavo io. Io col mio pallone. Una volta rompevo le luci, una volta il vetro. Riparavano i miei. Anche quando non avrebbero dovuto. Era sempre colpa mia».
Da San Giovanni a Teduccio Juliano approda alla Fiamma Sangiovannese e quindi nel vivaio del Napoli, con cui esordisce in Serie A nel 1963, proprio quando gli azzurri retrocedono in Serie B. Numero 8 sulle spalle, regista vecchia maniera, lancio lungo calibrato, destro al fulmicotone anche se di gol ne fa pochi. Fascia di capitano, l’amore della gente. Da calciatore disputa 394 partite di campionato (segnando 26 gol) nel Napoli (oltre 500 le presenze totali in tutte le competizioni in azzurro), conquista la Coppa Italia nel 1962 (unica squadra di Serie B a riuscirci nella storia) e nel 1976, oltre alla Coppa delle Alpi nel 1966 e alla Coppa di Lega Italo-Inglese nel 1976.
La rottura col Napoli e l’ultima stagione al Bologna
Un solo strappo forte nella sua storia d’amore col Napoli, con cui pure non fu sempre tutto liscio («Mi sono sempre sentito più rispettato che amato. Strana città, questa. Poco propensa ad accettare la bravura di un figlio suo»), ovvero quando chiuse l’attività agonistica con una stagione nel Bologna nel 1978-79, a 36 anni.
Lui raccontava così a La Repubblica quello che successe: «Sono al mare in Sardegna e viene a parlarmi l’allenatore Di Marzio. Dice che gli servo, vuole un uomo d’esperienza in campo, gli vado bene anche se non posso dare tantissimo. Siamo d’accordo. Dopo tre giorni un telegramma mi convoca in sede. Urgentemente. Pensavo per il contratto, così chiamo il presidente, gli giuro che non avrei creato problemi e che ne avremmo parlato con calma al ritorno dalle vacanze. Non è per il contratto».
«Vado e scopro che i programmi sono cambiati. Mi dicono che vogliono affidarmi il settore giovanile. Rispondo che ho cambiato idea e che voglio giocare ancora. Chiedo d’essere lasciato libero: in realtà volevo decidere io quando dire basta, non doveva decidere il Napoli. Vado a Bologna, dove c’era Pesaola ad aspettarmi. Quand’è finito il campionato, mi hanno dato una medaglia d’oro e un assegno in bianco per premio. A Bologna ho capito cosa significa vivere».
Juliano e la Nazionale, gioie e dolori
L’altro grande rimpianto si chiama Nazionale. Juliano ha sempre colpevolizzato la stampa del Sud di non averlo spinto abbastanza. Solo 18 le partite in nazionale tra il 1966 e il 1974, vinse il titolo europeo nel 1968, pur senza disputare la finale bis contro la Jugoslavia. Viene convocato per i Mondiali del 1966, del 1970 e del 1974, vedendo il campo soltanto per poco più di un quarto d’ora, nella finale persa contro il Brasile a Città del Messico nel ’70.
Il primo ritorno a Napoli da dirigente
Ferlaino lo richiama nel ’79 come dirigente. Juliano vuole puntare sui giovani del vivaio ma piazza subito un colpo da 90, convincendo nell’80 Rudy Krol, che svernava in Canada, a vestire l’azzurro. Il capolavoro si chiama Maradona nell’84. «La verità è che per Maradona spingevo solo io. Ferlaino non lo voleva prendere. Mi dicono che c’è un’occasione per portarlo via al Barcellona. Riferisco, ma in società mi fanno storie. Dicono che è fantascienza. Dicono che ha la caviglia rotta. Dicono che costa troppo. Un giorno mi scoccio: lo volete o no? Ferlaino prova a fermarmi fino all’ultimo istante. Quando salgo sul volo per andare a chiudere il contratto in Spagna, mi consegna una busta chiusa. La apra solo in aereo, mi dice. Faccio così. Dopo il decollo leggo il biglietto e quasi non ci credo. Lo rileggo. “Caro Juliano, c’è scritto, ci ripensi. Valuti bene, l’operazione costa troppo, con quei soldi prendiamo 5 giocatori”: e mi mette pure l’ elenco con i nomi». I nomi sono ancora sul foglietto. «E’ conservato in casa mia. Dico solo che uno era dell’Inter». Hansi Muller, il tedesco con le ginocchia di cristallo. «Feci di testa mia».
La seconda chance in azzurro
Nei momenti di difficoltà Ferlaino si ricorda sempre di Juliano e lo richiama anche quando il Napoli retrocede. Diventa dg, sceglie UIivieri come allenatori e fa lui il mercato. Fallimento totale. Era il 1998, Fu l’ultima volta. «Ho sbagliato le valutazioni sui giocatori da prendere. In serie A mi bastava scegliere quelli che mi sembravano più forti di me. Come Krol. In serie B no. Evidentemente non so valutare quelli meno bravi di me…». Successivamente per molti anni ha partecipato alle trasmissioni televisive sportive napoletane, da innamorato del Napoli ma anche da critico severo quando c’era da contestare.