Quando otto anni fa, il 21 dicembre del 2010, si diffuse la notizia della morte di Enzo Bearzot non ci fu un solo italiano che non sentì un groppo in gola. E magari qualche lacrima scendere. Perchè il “Vecio” era amato da tutti, uomo vero ancor più che ct dell’Italia del Mundial ’82. Aveva 83 anni quando è morto, nella sua casa milanese, ma era “Vecio” già 30 anni prima. Amava il jazz – in una tourneè del ’49 a New York con l’Inter comprò una serie di dischi di cui era gelosissimo – e paragonava il calcio a una grande orchestra dove anche gli assoli dei singoli dovevano essere inseriti in un contesto solido. Il gruppo era la sua ossessione e la sua forza. Forse anche il suo limite, visto che per riconoscenza a quel “gruppo” che aveva vinto il Mondiale, nell’86 preferì ancora affidarsi alla vecchia guardia, convocando Rossi e Tardelli che non erano più i campioni di un tempo, finendo per essere eliminato agli ottavi in Messico ma certi valori per Bearzot valevano più di tutto. Del resto le pagine più belle le ha scritte affidandosi al blocco-Juve (con il blocco-Torino quasi tutto in panchina): da Zoff a Gentile, da Cabrini a Scirea, da Benetti a Bettega, da Causio a Tardelli. Memorabili i trionfi ma quante critiche ha dovuto sentire nella sua carriera l’ex ct prima delle gioie.
LE CRITICHE – Gli rimproveravano di tutto, in particolare alcune esclusioni come quelle di Beccalossi e Pruzzo. Il suo biografo, Gigi Garanzini, ha detto: “Enzo diceva che il Becca accarezzava la palla ma che la perdeva sempre in una zona del campo pericolosa. Quanto a Pruzzo, non l’ha mai considerato un giocatore di livello internazionale”. Ironia del destino la sua data di morte arriva lo stesso giorno e lo stesso mese di un altro ct campione del Mondo: Vittorio Pozzo, spentosi nel 1968, sempre il 21 dicembre. In famiglia lo vedevano medico, avvocato o in banca. Lui scelse subito il pallone. Di famiglia benestante (papà Egidio direttore di banca a Cervignano), di solida cultura classica, ai tempi del ginnasio frequenta il pallone con successo. Lo nota un dirigente della Pro Gorizia, Serie B, e lo porta nel calcio vero. Due anni dopo il sogno diventa realtà con la maglia dell’Inter, ma il gran numero di campioni gli lesina spazio. L’Inter non ha mai creduto molto in lui, al punto da fargli venire dei dubbi ma quando conobbe Luisa, che divenne sua moglie, capì che bisognava insistere. Fu lei a convincerlo a non smettere quando l’Inter decise di cederlo al Catania. Lei, milanesissima, gli disse: “Ci sposiamo e andiamo a vivere al mare”. Ci restò tre anni a Catania, l’ultimo fu quello della promozione. Quando in città si seppe che sarebbe andato al Torino i tifosi organizzarono un corteo che arrivò fino sotto casa sua per convincerlo a cambiare idea. Lui fu come sempre onesto e disse: “Non credo di poter fare molto di più di quello che ho fatto”.
LA CARRIERA – A Torino divenne leggenda, arrivò anche in Nazionale ma l’Italia l’avrebbe vissuta soprattutto da ct. Diventa presto allenatore: Nereo Rocco, tecnico granata, gli rivolge l’invito formale: «Ciò, bruto mona, quand’è che ti scominzi a darme una man?». Prende a mano la De Martino, la Primavera dell’epoca rafforzata da elementi della prima squadra. L’uomo del destino però è Ferruccio Valcareggi, che gli propone di entrare nei ranghi federali, con la prospettiva di un lavoro in profondità. Bearzot accetta e segue la lunga trafila, al seguito di zio Uccio ai Mondiali 1970 e 1974, poi alla guida dell’Under 23 e infine, nel 1975, aiutante di campo del Ct Fulvio Bernardini. Nel 1977, quando Bernardini si fa da parte con amarezza, Bearzot diventa commissario tecnico azzurro. Aveva la pipa sempre in bocca e un naso da pugile, figlio di tre incidenti come lui stesso raccontò: «Tre fratture, mica una. E due causate dai miei compagni. La prima volta ero arrivato all’Inter da poco, partitella, il portiere Soldan grida mia mentre io sono già in aria a respingere di testa, il pugno anziché sul pallone arriva sul mio naso. Operato, raddrizzato, come nuovo. Pronto per la seconda volta, a Trieste, con il Toro. Saltiamo nella nostra area, io per rinviare, Fortunato per incornare verso la porta. Ci sbilanciano, la palla passa un attimo prima, fronte contro naso, altra frattura. Infine, partitella del giovedì al Filadelfia, la nuca del giovane Mazzero contro il mio vecchio, solito naso. L’ho tenuto cosi, una specie di medaglia se non al valore perlomeno al coraggio». E coraggio ne ebbe tanto: trasformò Scirea nel primo libero moderno, mise Tardelli – che nasceva terzino -come tuttocampista, lanciò i giovanissimi Cabrini e Rossi per il Mondiale 1978, quando nessuno ci credeva. «Il sistema di gioco? Zona mista, quella di allora. Marcature a uomo quando e dove occorre, disposizione a zona nel resto del campo. Ci sono certi tipi di giocatori che puoi annullare più facilmente se gli togli un pò d’aria da respirare. Dopodiché, se hai assemblato una squadra di giocatori polivalenti sai che se la cavano sia se e ‘è da soffrire e difendere sia quando è il momento di prendere l’iniziativa e attaccare. A forza di giocare insieme diventano una buona squadra anche undici mediocri. Figurarsi se tra loro e ‘è un campione, o meglio ancora più di uno». Dopo i Mondiali ’86 si dimise dicendo: “Per me allenare l’Italia era una vocazione che, con il passare degli anni, è diventata una professione. I valori del gioco sono cambiati dai miei tempi. A causa dello sviluppo del settore e dell’ingresso sulla scena di grandi sponsor, sembra che il denaro abbia spostato i pali delle porte”.