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Riccardo Saponara ricorda Astori: "Eri la mia spalla"

La struggente dedica dell'amico ed ex compagno di squadra al difensore scomparso tre anni fa: "Sei stato l'amico ideale. Non c'era una cosa che non conoscevi. Ti voglio bene".

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Quella tra Davide Astori e Riccardo Saponara era un’amicizia fraterna, nata e sviluppatasi in poco tempo durante la comune militanza alla Fiorentina.

Il destino che ha portato via nel sonno l’allora capitano dei viola nella notte del 4 marzo 2018 non ha spezzato quel legame, così Saponara, oggi in forza allo Spezia, ha voluto ricordare Astori, a proprio modo attraverso una lettera struggente pubblicata su “Cronache di Spogliatoio”.

(…)

“Sono passati tre anni e mi manca la tua spalla. Eravamo seduti accanto in sala pranzo, e sai che spesso mi appoggiavo a te come si fa con un fratello maggiore. Mi hai dimostrato di essere una persona unica, un leader diverso. Come quella volta in cui ho firmato con la Fiorentina. Il Team Manager mi inserì nel gruppo WhatsApp ed ero soltanto un numero nella rubrica di molti, come accade quando si cambia squadra. Un +39 anonimo dentro a un cellulare. E invece no: tu chiedesti il mio contatto e mi scrivesti subito. «Per qualsiasi cosa, conta pure su di me». Parole semplici, ma che in quel momento mi hanno fatto sentire meno solo. Non ci conoscevamo, ma lo spavento che provavo nell’entrare in uno spogliatoio nuovo dopo tre anni a Empoli fu spazzato via in un secondo. Mi hai sempre dimostrato cosa significasse per te essere un amico, nei piccoli gesti quotidiani. Te lo avevo detto quel giorno: «Guarda che oggi non gioco». Tu, invece, testardo, mi ripetevi che sarei stato titolare. Lo facevi per me, lo so, ma alla fine il mister mi mandò in tribuna, addirittura. A volte rileggo quel messaggio che mi inviasti durante il tragitto verso lo stadio: «Stai andando bene, stai crescendo. Oggi non giochi, ma sei sulla strada giusta per tornare al tuo livello. Continua così».

Sapevi motivare, sapevi riprendere, sapevi quando arrabbiarti, sapevi quando scherzare, e come farlo. Come quel sabato sera a Udine. Io, te e Marco (Sportiello, ndr) a cazzeggiare. Abbiamo parlato un po’ e poi vi siete messi a giocare alla Play. Maledetti. Lo sapevate che non mi piaceva giocarci, vi odiavo quando vi piazzavate davanti a quello schermo a urlare come pazzi incollati a FIFA.
Quindi me ne andai in camera.

La mattina scesi per fare colazione. Vidi le tue scarpe appoggiate fuori dalla camera di Marco. Se le sarà dimenticate lì ieri sera, pensai. Le tue posate, il tuo piatto e il tuo tovagliolo erano intatti. Strano, eri sempre il primo. Sarà stato un cameriere a cambiare il coperto. Non ci feci caso. Tornai in camera da Vincent Laurini, il mio compagno di stanza, per trascorrere le due ore prima del pranzo.
Sentii il rumore di un’ambulanza e mi affacciai alla finestra. I portelloni sul retro erano aperti, le luci lampeggiavano di un blu più freddo del solito. C’era anche Leo, il nostro magazziniere, che camminava avanti e indietro nel parcheggio, fumando una sigaretta. La stava consumando tre tiri alla volta, in modo nervoso.
«Leo, che fai?».

Aveva la voce rotta, non riuscivo a comprendere la sua risposta. Mi sporsi dalla finestra per avvicinarmi a lui. Forse l’avevo già sentita, ma il mio cervello si rifiutava di recepirla, di incamerarla, di accettarla. Come un impulso che porta a un netto rifiuto.
«Davide è morto!».

Il vuoto, una scarica elettrica che ti paralizza. Non riuscivo a percepire la sua voce fino in fondo. O forse non volevo. Gli chiesi di ripetere una seconda volta, e lo fece. Mi voltai verso Vincent con gli occhi sbarrati. Come avrei dovuto comunicargli una cosa del genere? Non ci fu il tempo, perché qualcuno bussò alla porta della nostra camera. Aprii con la forza di chi ha smarrito il proprio io, di chi non è padrone del proprio corpo per qualche secondo.

Era il mister. C’era Stefano Pioli in lacrime: «Davide non c’è più». Continuava a piangere, lacrime implacabili. Mi abbracciò forte, un gesto che avvertii come disperato. Fu in quel momento che mi affacciai al corridoio. Alcuni miei compagni erano a terra, pietrificati. Altri si rifiutavano di accettare che fosse accaduto davvero, che fosse accaduto a Davide. Sentivo i pugni sbattere sulle pareti dell’hotel. Urla di rabbia e dolore: «Come cazzo è possibile!!!». Cercavano di capire perché la vita era stata così infame. Ma una risposta non c’era e non c’è nemmeno ora. Ricordo di aver sentito distintamente le urla di Fede (Chiesa, ndr), che era appena stato svegliato con quella notizia. Erano urla di disperazione, incontrollate. Stava spaccando tutto in camera, era in preda al raptus di chi non accetterà mai quella sentenza.

Mi diressi verso la stanza di Davide. Intravidi i suoi piedi, ma non ebbi il coraggio di entrare. Seguirono ore di silenzio, rientrammo a Firenze e i tifosi ci riservarono un lungo applauso, che risuonava in un silenzio composto da commozione e rispetto. Ci ritrovammo due giorni dopo al centro sportivo, dopo il lunedì trascorso a casa per cercare risposte. Eravamo in palestra e il primo a parlare fu Pantaleo Corvino, il nostro direttore generale. E fu sincero: «Io una cosa così non l’ho mai vissuta, non so come la vivrete voi. Per me potete smettere di giocare oggi, non ha importanza quello che succede da qui al termine della stagione. Non so come andremo avanti». Parlò anche Milan (Badelj, ndr), e lo fece con un discorso ancor più intimo rispetto a quello che pronunciò durante il funerale di Davide nella Chiesa di Santa Croce. Fu speciale anche il primo momento in cui ci guardammo tutti negli occhi. Milan ci esortò a continuare nel suo ricordo, a riprodurre quei comportamenti che ci aveva insegnato.

(…)

Sai, qualche giorno fa saresti stato fiero di me. Agudelo, un mio compagno che viene dal Sud America come tanti dei nostri amici alla Fiorentina, ha discusso con il mister durante l’allenamento. E si era offeso. Era stato escluso dalla partitella e, dopo qualche minuto, il preparatore gli ha restituito la casacca per tornare in campo. E lui no, non voleva. Se l’era presa. Allora gli ho detto: «Dai, non fare così. Torna in campo e basta». Con i tuoi modi, quelli giusti per non creare un precedente. Negli spogliatoi era ancora arrabbiato. Ma io non volevo che quel comportamento lo rovinasse. L’ho preso da parte: «Ascoltami. Sai che devi ritenerti fortunato? Il mister si è incazzato, ti ha escluso, e dovresti essere orgoglioso di lui. Cosa avresti voluto? Uno che non ti dice nulla, fa finta di niente, e la domenica ti lascia in panchina senza spiegazioni? Senza che tu possa capire i tuoi errori e migliorare? Devi ritenerti fortunato, lo avrei voluto incontrare anche io da giovane un allenatore così». Non mi ha risposto. Il giorno della partita ero nello spogliatoio e mi stavo lavando i denti, l’ho visto entrare: «Riccardo, avevi ragione. Ti devo ringraziare, oggi gioco titolare».

Grazie Asto, ti voglio bene”.

Riccardo Saponara ricorda Astori: "Eri la mia spalla" Fonte: Getty Images

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