La maglia gialla di Jonas Vingegaard, la maglia bianca di Tadei Pogacar, la maglia a pois di Giulio Ciccone e la maglia verde di Jasper Philipsen: la diapositiva del giorno va in scena nel corso della 21esima tappa del Tour de France.
L’epilogo: da Saint Quentin en Yvelines a Parigi, verso gli Champs-Elysee. I quattro stanno sfilando, chiacchierando, brindando e si stanno godendo – rivivendolo con gli occhi, a ritroso – l’affetto di due ali di folla che, nel corso delle tre settimane, quasi in antitesi rispetto a una metropoli blindata per motivi di sicurezza, sono state lo spettacolo nello spettacolo.
- Il ciclismo è della sua gente
- Un legame che non si sfalda
- Le quattro maglie in passerella
- Jonas Vingegaard, maglia gialla
- Tadej Pogacar, maglia bianca
- Giulio Ciccone, maglia a pois
- Jasper Philipsen, maglia verde
Il ciclismo è della sua gente
Il ciclismo e la sua gente: sempre presente, a volte con un eccesso di foga e una mania di protagonismo che rasentano (o lo centra in pieno) il pericolo. Ma imperterrita. Sempre dietro la carovana.
C’è chi – e sono tantissimi: con le tende, con il camper, con le bici – organizza le vacanze estive rincorrendo le tappe del Tour. C’è chi non manca da anni. Ci sono quelli che si ritrovano dopo dodici mesi negli stessi punti in cui s’erano lasciati l’anno prima.
E basta loro poco: vederli dal vivo per qualche secondo, giusto il tempo di percepirne lo sforzo, il sacrificio, la fatica, l’impegno e la costanza. A volte hanno la fortuna di cogliere in tempo reale il momento della fuga, altre volte il dispiacere di assistere al gruppo che si rifà sotto e vanifica una piccola impresa individuale fatta di chilometri e chilometri di slancio.
Un legame che non si sfalda
Altre volte vorrebbero soffiare sulla bici, spingere chi va in crisi fino a portarlo alla fine a braccia. La gente del ciclismo non tradisce mai: nonostante qualche ciclista, invece, lo abbia fatto; nonostante sia uno degli sport su cui la lente d’ingrandimento è poggiata fissa; nonostante i luoghi comuni – comunissimi – ne tratteggino la fisionomia come quella di una disciplina in cui, prima o poi, si bara. Non si tiene mai abbastanza in considerazione il fatto che sia lo sport più attenzionato di tutti. Non c’è quasi mai la presa d’atto che sia una delle discipline in cui chi deve pagare, alla fine lo fa. Non guarda in faccia a nessuno, il ciclismo: che sia il campione assoluto, che sia l’ultimo del gruppo. Non ha mai fatto sconti: se qualcuno la scampa, non è per sempre.
Le quattro maglie in passerella
Vingegaard, Pogacar, Ciccone e Philipsen: sono loro l’immagine del giorno, senza dubbio. L’universo dello sport crea un bell’effetto abbraccio e lascia che, al centro del cerchio, ci finisca il ciclismo.
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— Tour de France™ (@LeTour) July 23, 2023
L’atto finale del Tour de France è una passerella con tanto di onori. L’entusiasmo parigino rende benissimo l’idea di quanto, i milioni di appassionati sparigliati nel mondo, restino fedeli nei decenni alla Grande Boucle e ai suoi protagonisti.
Jonas Vingegaard, maglia gialla
Di Jonas Vingegaard s’è detto di tutto e di più: fa una grande corsa all’anno e la stravince. Dà la sensazione di venire da un altro pianeta, uno di quelli dove i bimbi nascono già con didietro sul sellino.
Maglia gialla per il secondo anno consecutivo, un dominio pressoché totale nell’ultima settimana, quella in cui se ne attendevano le difficoltà e ci si è trovati di fronte a un marziano.
Ha pedalato sospeso a mezz’aria, Vingegaaard: sembrava volasse. Qualche sofferenza a metà corsa, quando Pogacar s’è fatto sotto, minaccioso e concreto. Invece, poi, il danese ha messo il turbo e, sulle ultime montagne, silenziato tutti gli altri.
Tadej Pogacar, maglia bianca
Tadej Pogacar, maglia bianca, il giovane più forte. Finisce secondo con quasi otto minuti di ritardo: a un certo punto ha capito che non ce n’era più, che non ne aveva più.
Fino a tre quarti è stato a ruota di Vingegaard, anzi: sembrava poterlo scalzare. Invece una crisi in salita ha compromesso ogni tentativo e il minuto e 38 secondi di distacco dal giallo nell’ultima crono – poco più di 20 km – sono stati gli attimi di una resa che ha avuto il suo sussulto finale nella vittoria della penultima tappa, quella che da Belfort ha portato il gruppo a Le Markstein. Lo doveva a se stesso, alla squadra, a quelle ali di farfalla assiepate a bordo strada che sbattevano mani aprendole e chiudendole.
Giulio Ciccone, maglia a pois
Giulio Ciccone, l’Italia. 31 anni dopo Claudio Chiappucci, unico lampo tricolore di un Tour in cui siamo stati i grandi assenti. È così da quattro anni, ormai: non vinciamo più nemmeno una tappa. Zero vittorie anche per Ciccone che, però, ha corso con l’intelligenza di un fuoriclasse: individuato l’obiettivo, la pois, non ha sbagliato un colpo.
Il sigillo nella tappa 20: gli serviva infilare ancora qualcjhe punto per tenersi dietro per sempre l’austriaco Felix Gall e quel satanasso di Vingegaard. Ha scritto il suo capolavoro nella prima metà di gara: Ballon d’Alsace, Col de la Croix de Monats, Col de Grosse Pierre, Col de la Schlucht.
I rivali non lo hanno visto: partiva e metteva in cascina. Partiva e metteva in cascina. Appena dopo l’ultima ascesa, l’urlo liberatorio. La tappa di Giulio, e con essa il Tour, sono finiti clamorosamente bene proprio sul Col de la Schlucht.
Jasper Philipsen, maglia verde
Jasper Philipsen, maglia verde strameritata. Gli arrivi in volata sono i suoi: intermedi o finali, poco importa. Lo strapotere del belga classe 1998 è tutto evidente nelle quattro vittorie messe a referto.
Manca per centimetri una cinquina storica che ne avrebbe fatto cognome da libri imperituri del ciclismo. Che possa mettere nel mirino i numeri strabilianti di due campionissimi come Eddy Merckx e Mark Cavendish, capaci di vincere la bellezza di 34 tappe della corsa francese? Durissima, non impossibile. In ogni caso, a fine carriera, il Philipsen visto quest’anno finirà proprio lì. Dalle parti di Merckx, dalle parti di Cavendish.