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Lazio, Vincenzo D'Amico: fantasia, donne e sorriso del golden boy idolo biancoceleste

L'ex centrocampista non è riuscito mai a giocare in Nazionale ma aveva un talento purissimo

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Fabrizio Piccolo

Fabrizio Piccolo

Giornalista

Nella sua carriera ha seguito numerose manifestazioni sportive e collaborato con agenzie e testate. Esperienza, competenza, conoscenza e memoria storica. Si occupa prevalentemente di calcio

Mai gol banali, mai interviste noiose, mai serate da dimenticare. Vincenzino D’Amico era così, in campo e fuori. Un personaggio border line nel mondo del calcio sempre omologato, un campione sui generis negli anni 70-80, che da “grande” era amatissimo anche come commentatore televisivo per la Rai e le private sia romane che napoletane. Il suo addio, avvenuto oggi per un cancro che aveva confessato di avere sui social, lascia un vuoto enorme.

D’Amico si paragonava a Pelè

“Ormai chi sa davvero giocare al calcio nel mondo siamo io e il negretto”, con questa ironica battuta un famoso calciatore della Lazio aprì una intervista. Il ‘negretto’ in questione era Pelè e l’intervistato era proprio Vincenzo D’Amico: autoironia solo fino a un certo punto perché di sè aveva una grande opinione. Talento puro tutto intuizione e genio, agli esordi D’Amico è paragonato a Neeskens e Netzer, ma alcuni limiti caratteriali (leggenda dice belle donne e buona tavola..) e qualche infortunio di troppo ne hanno limitato la carriera.

D’Amico e la storia interrotta con la Nazionale

Ribelle lo è sempre stato. Paradossale che dopo una carriera tutta alla Lazio la sua unica convocazione in Nazionale dovesse arrivare quando passò al Torino, nell’80. I primi giorni tutte rose e fiori (“qui in azzurro nessuno ti guarda storto se leggi Topolino”) ma Bearzot non lo fa giocare nelle due amichevoli programmate. Lui si arrabbia e dice arrivederci e grazie. Mai più in azzurro.

D’Amico aveva studiato da ragioniere

Nato a Latina, città che amerà per tutta la vita, D’Amico aveva studiato a Roma presso il “Leonardo da Vinci” di via Cavour. L’ aspirante ragioniere viene però convocato dall’ allenatore della scuola, professore d’ educazione fisica per le selezioni della scuola. C’è la partecipazione per lo Junior Club (importantissimo torneo studentesco romano). E’ il febbraio del 1970. Raccontava D’Amico: “Abbiamo perso nei quarti contro il Vallauri, ai rigori. Giocavo trequartista, spostato a sinistra. A vederci veniva tutta la scuola, sempre. Ma non ci sono mai stati scontri, né in campo, né fuori. Bellissima esperienza. Lo Junior Club era considerato un torneo romanista, i laziali lo boicottavano. Beh, a 15 anni giocavo nell’Almas. E, infatti, l’anno dopo, quando venni tesserato dalla Lazio, smisi di giocare lo Junior Club”.

D’Amico e la maglia biancazzurra

Singolare un aneddoto sulla maglia della Lazio: “Io arrivo alla Lazio e la Lazio era biancazzurra, i giocatori venivano chiamati i biancazzurri. Dopo è uscito fuori “biancocelesti” anche perché col tempo effettivamente diverse maglie hanno preso una tonalità più chiara, soprattutto quelle più moderne. La Lazio però è conosciuta in Italia come “i biancazzurri”, tra i tifosi, sui giornali, sicuramente negli anni in cui ho vestito la maglia della Lazio.”

“Io basta che indossavo la maglia della Lazio ed ero felice, non avevo bisogno di altro: poteva essere di qualsiasi colore. L’anno dopo lo Scudetto Chinaglia si inventò di far arrivare le maglie con il colletto e la V chiusa sul petto, un modello particolare che fu scelto direttamente da lui. Una maglia con cui abbiamo giocato spesso. E ricordo che ho sempre salvato le maglie dell’ultima partita di campionato, in tutte le stagioni, anche se non me ne sono rimaste molte, ho fatto parecchi regali.”

D’Amico in lacrime per la morte dell’amico Wilson

Nella Lazio dello scudetto del ’74 D’Amico era particolarmente amico di Pino Wilson, morto nel marzo del 2022, solo due mesi prima che D’Amico confessasse il suo male. Intervistato da Il Messaggero, disse: «Ho saputo della notizia della morte di Pino Wilson in un modo scioccante. Ero all’oscuro di tutto, poi leggo il messaggio di un giornalista di tg: “Volevamo parlare con lei per avere un ricordo di Pino Wilson”. Lì per lì non capisco nulla, penso: un ricordo di che? Ma subito mi arrivano le telefonate degli amici che mi informano. Una botta micidiale».

«Io avevo 17 anni, lui era già Wilson. Me ne stavo lì, in silenzio, sull’attenti. Diventò capitano quell’anno con Maestrelli, prima la fascia era di Nello Governato o di Ferruccio Mazzola. Io esordii in quella stagione, con Pino in campo, Massa e Chinaglia compagni d’attacco. Piano piano, nei mesi, l’ho conosciuto meglio ed è nato un grande rapporto che è durato tutta la vita. Sempre stato un uomo di grande personalità, di livello culturale sopra la media. Non c’era quasi nessuno all’epoca tra i calciatori di Serie A che andasse all’università come lui, e si laureò pure. Ma quando entravi in Pino e lo capivi ti accorgevi che era uno di noi, simpatico, pronto alla battuta, uno vero. Anche un capitano in campo e fuori, un fratello maggiore: una volta Maestrelli decise che doveva controllarmi di più a tavola e finì che Pino veniva sempre a pranzo con me. Ho passato la vita a tavola con lui fino a poco tempo fa».

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