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Che fine ha fatto Juary, dalle bandierine a S.Siro alla Champions

Il brasiliano esplose nell’Avellino, ora lavora in patria

02-06-2019 14:42

Che fine ha fatto Juary, dalle bandierine a S.Siro alla Champions Fonte: Instagram

Ma chi è quel folletto che ubriaca i difensori avversari e quando segna va a festeggiare con una danza attorno alla bandierina del corner? L’Italia conobbe così, con quella danza un po’ tribale, Jorge dos Santos Filh, per tutti Juary. Attaccante brasiliano che l’allora presidente dell’Avellino Antonio Sibilia pescò in Messico, al Guadalajara, dove era andato dopo aver debuttato col Santos (era in campo il giorno dell’addio di Pelè). Erano tempi pionieristici, inizio anno 80, quando in Italia arrivavano campioni affermati (da Krol a Falcao) e meteore che non ebbero successo (da Luis Silvio a Mirnegg). Un solo straniero era consentito: le big andavano sul sicuro, per le piccole era una scommessa e l’Avellino la vinse. Juary divenne un idolo (13 gol in 34 gare) nonostante qualche polemica legata a frequentazioni equivoche (a sua insaputa accompagnò il presidente Sibilia a un’udienza dove l’imputato era il boss della camorra Raffaele Cutolo, cui proprio Juary consegnò una medaglia d’oro con dedica) e di lui si accorsero anche le grandi squadre. Tra cui l’Inter che lo acquistò.

L’ANNO ALL’INTER – I nerazzurri in verità pensavano a lui come pedina di scambio per arrivare a Schachner ma l’affare saltò e Juary rimase all’Inter per il campionato 1982-1983 dove collezionò 21 presenze e 2 reti, anche per problemi di affiatamento della squadra. Ad Avvenire ricordò così l’esperienza in nerazzurro: “Venivo da Avellino dove ero diventato un re e mi ritrovai in una squadra che aveva dieci nazionali ed ero stato preso come “ripiego” di Schachner del Cesena che aveva preferito andare al Torino. Vagavo per il campo di San Siro, congelato: fino a primavera giocai con i guanti per paura dei geloni alle mani. Non vedevo più la porta, feci solo due gol in tutto il campionato e la domenica che segnai al Catanzaro c’era così tanta nebbia che ce ne accorgemmo soltanto io e l’arbitro. La mia era un’Inter con uno spogliatoio pieno di campioni Zenga, Bergomi, Collovati, Beccalossi, Altobelli… però quell’anno arrivammo terzi dietro alla Roma che vinse lo scudetto e alla Juventus”.

LA SECONDA VITA – Venne ceduto all’Ascoli, poi andò alla Cremonese e la sua carriera sembrava in caduta libera fin quando firmò per il Porto. Con i lusitani vinse prima il campionato e poi la coppa Campioni, segnando anche in finale contro il Bayern: «Mi davano per finito e invece molto prima di Mourinho con il Porto nel 1987 ho alzato al cielo la Coppa dei Campioni. Nella finale di Vienna contro il Bayern Monaco sono entrato nel secondo tempo quando perdevamo 1-0 e il sottoscritto ha segnato il gol del 2-1 contro quella squadra in cui giocavano due leggende nerazzurre, Matthäus e Rummenigge». Chiude la carriera da calciatore in Brasile e successivamente apre quella di tecnico in Italia. Nella stagione 2005-2006 è allenatore della formazione Berretti dell’Avellino, mentre in quella successiva allena i pari età del Potenza. Inizia un lungo peregrinare, prima il settore giovanile del Napoli poi la Primavera del Porto, il settore giovanile dell’ASD Montoro, i dilettanti del Banzi, l’Aversa Normanna e il Sestro Levante. Non era però la carriera che voleva, così Juary torna in Brasile: “Santos è la mia casa e sono tornato qui per dare una mano al settore giovanile. Mi occupo degli under 14. In Brasile di talenti ne nasce uno al giorno: i bambini giocano ancora a piedi nudi sulle spiagge o per la strada”. Ma lì, non ci sono bandierine dove danzarci attorno. Juary ha sei figli e due di loro hanno scelto di vivere in Italia dando all’ex attaccante anche nipoti italiani.

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