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Raffaella Masciadri contro gli stereotipi di genere: il ruolo e le motivazioni oggi dell'ex capitana della Nazionale

Intervista esclusiva a Raffaella Masciadri, campionessa ed ex capitana delle Azzurre di basket. Il suo rapporto con Kobe Bryant, il presente e la lotta per la parità di genere. Anche nello sport

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Elisabetta D'Onofrio

Elisabetta D'Onofrio

Giornalista e content creator

Giornalista professionista dal 2007, scrive per curiosità personale e necessità: soprattutto di calcio, di sport e dei suoi protagonisti, concedendosi innocenti evasioni nell'ambito della creazione di format. Un tempo ala destra, oggi si sente a suo agio nel ruolo di libero. Cura una classifica riservata dei migliori 5 calciatori di sempre.

Raffaella Masciadri conosce la tenacia, sacrificio, capacità di vedere oltre senza dimenticare da dove si arriva. Oggi, affronta un presente da Presidente della Commissione Nazionale Atleti al CONI, una partecipazione che sostiene e promuove la nostra nazionale di Basket over 40 e una ricerca sistematica di nuove modalità di coinvolgimento ed educazione delle nuove generazioni per rendere più inclusiva una società civile anche attraverso la pallacanestro. A raccontarsi è la stessa Raffaella, da capitana della nazionale a portatrice di istanze ormai necessarie, in esclusiva per Virgilio Sport.

D.: A tre anni dal ritiro ufficiale con 15 titoli e l’incredibile esperienza negli Stati Uniti nell’ WNBA, la lega femminile dell’NBA, e nei Lakers quali passaggi di vita e sport raccontano meglio Raffaella Masciadri?

R: I passaggi di vita e sport che mi raccontano meglio sarebbero numerosi, perché ogni annata mi ha insegnato qualcosa e mi ha fatto diventare la donna e la giocatrice che sono ora. Però credo che siano tre le fasi più importanti: la prima diciamo annate 1990-1998, durante la mia adolescenza, quando ho iniziato a giocare a basket e quindi quando mi sono resa conto, a 16 anni, che lo sport poteva diventare la mia vita e il mio lavoro. Per questo un enorme ringraziamento va ai miei genitori che sono sempre stati uno stimolo e un esempio per me, insegnandomi a lavorare ogni giorno con umiltà e determinazione per raggiungere i miei sogni. Il secondo episodio e’ stato a partire dall’ estate del 2004 quando sono andata a giocare negli stati uniti e al rientro mi sono trasferita a Schio, ingaggiata dal Patron Cestaro. E’ stata la prima volta che andavo a vivere lontano dai miei genitori e dovevo iniziare a gestirmi da sola, nella vita e nello sport. Probabilmente fare questo passo dall’altra parte del mondo mi ha aiutata a non trovare alibi o scuse se qualcosa non andava male: avevo in mano il mio destino, come donna e come giocatrice, e non potevo abbattermi davanti alle difficolta ma potevo solo rimboccarmi le maniche e darmi da fare. Cosi ho fatto e devo dire che sono orgogliosa di quegli anni e di come sono maturata. Il terzo passaggio è avvenuto dal
2014 al 2019, da quando ho conosciuto Andrea Capobianco fino al mio ritiro con Pierre Vincent. Questi due allenatori mi hanno aiutata a crescere definitivamente, soprattutto a livello mentale: ero la capitana sia della nazionale che del Famila Basket, ero all’apice della mia carriera, ma già
conscia che stavo iniziando a preparare il mio ritiro e il mio futuro fuori dal campo da basket. Ebbene, Andrea e Pierre mi hanno saputo insegnare quelle skills morali e tecniche per diventare leader, in campo e fuori. E per questo non smetterò mai di ringraziarli. Ultima citazione, come passaggio di vita, devo farla al mio percorso educativo e formativo, attraverso la scuola, l’università e il conseguimento del Master in Leadership & Management nel 2019. La doppia carriera è un passaggio essenziale e inevitabile per gli atleti perché è necessario prepararsi per il post carriera sportiva e non tutti ne comprendono l’importanza.

D.: Arrivare negli Stati Uniti, per una cestista italiana non è affatto un percorso scontato, anzi. Come ha intrapreso il suo percorso sportivo da bambina e che ruolo riconosce, con l’ottica adulta, ai suoi genitori papà Luigi e mamma Elena?

R: I miei genitori mi hanno fatto conoscere lo sport fin da piccolissima: possiedo ancora una foto di noi tre che tagliamo il traguardo come primi ad una marcia cittadina e io avrò avuto cinque anni. Mi è sempre piaciuto correre, tanto che il mio primo vero sport, dopo il classico corso di nuoto, e’ stata l’atletica leggera. Ero innamorata di questo sport, partecipavo anche alle corse campestre con la scuola e ogni anno portavo a casa medaglie d’oro o d’argento ai giochi della gioventù. Poi, a dieci anni, vista la mia altezza, papà Luigi, appassionato e giocatore di basket, mi propose di provare con
la palla a spicchi e…. il resto lo sapete! Quindi mamma e papà sono stati anche qui fondamentali nel mio approccio allo sport e ai suoi valori: costanza, sacrificio, divertimento e cosi mi sono appassionata prima all’atletica leggera e poi alla pallacanestro. La loro carta vincente con me credo sia stato il fatto che mi sono sempre stati vicini ma con obiettività: se una cosa la facevo bene, mi facevano i complimenti, altrimenti erano pronti a puntualizzare critiche ma sempre in maniera costruttiva. Mamma e papà mi hanno aiutata a superare i miei limiti e non darmi mai per vinta.
Caratteristiche che ho seguito anche nella vita di tutti i giorni e che, ovviamente, seguo ancora.

D.: Quanto ha contato il loro ruolo e il loro sostegno nella tua carriera sui campi da basket?

R: Come ho appena detto, il supporto dei miei genitori e’ stato determinante: agli incitamenti hanno anche affiancato giudizi che mi hanno portato a maturare in fretta e a puntare sempre più in alto. Ma sempre con umiltà e piedi per terra. Inoltre, aspetto ulteriore al fianco dello sport, era l’importanza che si dava alla scuola: studiare e fare sport andavano di pari passo e questo dualismo mi ha aiutato sia in un campo che nell’altro. Mi ricordo di pomeriggi o serate intere in cui i miei genitori si sedevano alla scrivania con me e mi aiutavano a studiare.

D.: Nel 2004, la svolta nella tua carriera di ala (già affermata e la migliore in quel ruolo a livello europeo) coincide con un incontro, quello con Michael Cooper, avvenuto a Como e che segna l’avvicinamento al sogno americano. Com’è avvenuto e quanto ti rendevi conto di quello che stava accadendo?

R: L’incontro con Michael Cooper e la GM delle Sparks Penny Toler è avvenuto il 3 marzo del 2004 al Palasampietro di Casnate con Bernate. Loro erano venuti in Italia per vedere dal vivo giocare Laura Macchi, al tempo mia compagna di squadra alla Comense. Rimasero circa una settimana e quindi videro un paio di partite nostre e fu li che osservarono anche me e mi proposero un contratto per il training camp. Sinceramente il mondo americano lo conoscevo pochissimo all’epoca, tanto che dovetti aprire l’atlante la sera con i miei genitori per vedere dove fosse Los Angeles. Ma chiaramente non esitati un attimo davanti alla loro proposta. Non avrei avuto un contratto garantito fin da subito, ma sarei andata nella terra del cinema a giocarmi il posto con altre 20 giocatrici. Questa cosa non mi spaventò mai, ma anzi mi fu da enorme stimolo per dare il massimo: fino a quel momento ero una giocatrice che si era “ costruita” con il lavoro quotidiano, la costanza e la determinazione perciò avevo ben chiaro cosa e come potevo ottenere il posto in squadra. Certo non fu semplice perché ero a migliaia di km da casa, da sola e dovevo prendermi cura di me stessa, dentro e fuori dal campo. Ma anche li mi ricordo quei giorni con immensa felicità e serenità perché sapevo di avere si un’opportunità immensa, ma anche che se non fosse andata bene, avevo dato tutto ciò che avevo e non potevo recriminarmi nulla.

Fonte: Ufficio Stampa

D.: Che cosa ti ha dato l’esperienza nella WNBA, ai Los Angeles Sparks? Che rapporto avevi con le compagne e i colleghi maschi? E che ricordo hai di un mito anche un po’ italiano come Kobe Bryant?

R: L’esperienza americana mi ha dato molto sia dal punto di vista umano che cestistico. Vivere per quattro mesi in un paese straniero, con una cultura diversa dalla nostra e con delle abitudini poco conosciute al tempo, è stato davvero arricchente dal punto di vista personale. Per esempio, ho
potuto perfezionare il mio inglese studiato al Liceo Linguistico e ho avuto la fortuna di conoscere tanti italiani trasferiti a Los Angeles con cui sono rimasta in contatto. Dal punto di vista cestistico, l’esperienza è stata incredibile perché ho fin da subito capito come è vissuto e considerato lo
sport in America e quale qualità hanno gli impianti e le strutture scolastiche e non solo. La parte più difficile di ambientamento è stata durante il training camp, perché ogni giocatrice giocava per sé ed è stata una vera battaglia per conquistarsi il posto in squadra. Ma devo dire che, una volta ottenuto, ho trovato giocatrici e staff molto disponibili e generosi nei miei confronti e tutti innamorati dell’Italia. Gli americani non sono cosi socievoli come noi europei, quindi non ci sono state spesso uscite a cena o altro con le ragazze. Poi dipendeva dal carattere che ciascuno di noi aveva e con alcune ho ovviamente legato, per esempio con Murriel Page, Christie Tomas e anche con Lisa Leslie. Quest’ultima era ed è davvero considerata una star, ma ciò che la contraddistingueva era l’umiltà e la sensibilità verso gli altri. Cosi con lei passavamo pomeriggi interi a parlare italiano (lei se lo ricordava ancora dopo soli pochi mesi da giocatrice ad Alcamo) e a
scambiarci pareri sull’Italia. Kobe ho avuto la fortuna di incontrarlo un paio di volte al campo di allenamento e a qualche partita soprattutto nell’anno in cui ci ha allenato suo papà Joe. La cosa che mi ha colpito maggiormente era la sua dedizione maniacale alla pallacanestro e al suo miglioramento. Lui era in off season in quei mesi e uno come lui avrebbe potuto godersi le vacanze su qualche spiaggia caraibica. Invece si allenava dalle 5 del mattino fino alle 10 quando arrivavamo noi ed era instancabile. Diceva che si allenava in quegli orari per non rubare tempo alla sua famiglia. Penso questo dica tutto di lui e del perché ha sempre avuto la stima di tutto il mondo.

D.: Avevi davvero consapevolezza, in quegli anni così intensi, del tuo talento, del tuo essere eccezionale rispetto a qualunque altra cestista italiana?

R: Sinceramente credo che la mia fortuna da giocatrice sulla rampa di lancio (dai 16 ai 24 anni soprattutto) sia stata proprio quella di non considerarmi mai ne migliore ne peggiore delle altre ragazze. Ho sempre vissuto con estrema umiltà tutto ciò che mi accadeva e, anche nei momenti di sconforto, non mi sono mai abbattuta facendo paragoni con le altre giocatrici. Ero consapevole si che avrei potuto fare della pallacanestro la mia vita e il mio lavoro, ma altrettanto lo ero del fatto che ognuno di noi ha i suoi tempi e i suoi modi per raggiungere gli obiettivi. Chiaro che ero consapevole delle capacità che avevo, ma cio che mi premeva di più era non deludere i miei genitori e me stessa. Volevo ripagarli dei sacrifici che loro stavano facendo per me, per darmi un futuro e quindi cercavo di dare il massimo per loro e per me stessa.

D.: Di quell’esperienza americana che cosa ti porti dietro? Hai preso parte recentemente anche all’evento Basketball Without Borders allenando giovani giocatrici e giocatori provenienti da tutta Europa, in una fase molto delicata di questi mesi segnati dal riacutizzarsi dei contagi da Covid.

R: Dell’esperienza americana mi porto dietro la certezza che i sogni si possono realizzare e la consapevolezza che il lavoro paga. Ma anche che bisogna cercare di fare tutto con il sorriso sulle labbra e prenderla con maggiore serenità quando la vita ci mette davanti delle avversità. Sono queste le cose che ho cercato di tramettere alle ragazze di Basketball Without Borders. Loro hanno un’occasione unica, che ai miei tempi non esisteva ancora: essere scelte per partecipare ad un camp dove vieni allenata dai migliori allenatori Nba/Wnba, dove sono presenti giocatori e giocatrici affermati/e che ti aiutano a migliorare. Il tutto anche alla presenza di scout, europei ed americani. Mi ha fatto moltissimo piacere che la Fiba e la Nba siano riusciti a rimettere in piedi questo evento dopo i due anni di pandemia: i nostri giovani hanno la necessita di ritornare in società, a confrontarsi faccia a faccia con i loro coetanei e questa è stata un’esperienza che li ha incoraggiati a riprendere la vita di qualche anno fa. I sogni non si possono arrestare!

D.: Oltre ai più giovani hai mostrato attenzione e sensibilità verso quanti, chiusa la carriera agonistica, manifestano ancora il desiderio di competere e con Nazionale over 40 hai centrato un obiettivo importantissimo agli Europei. E’ un inizio che porterà a che cosa?

R: Spero che questo nuovo percorso con la Nazionale over 40 ci porti lontano, nel senso che gia dall’anno prossimo confidiamo nel fatto di riuscire a partecipare ai campionati mondiali, e alle competizioni successive. Certo è che ci servono sostegni, economici e non e non è facile trovarli. Però la cosa bella è che ognuna di noi, attraverso questa iniziativa, ha trovato e continuerà a trovare stimoli per vivere una vita migliore, sia sportiva che personale. Lo sport e il basket hanno caratterizzato tutta la nostra giovinezza e non solo. Ci ha permesso di conoscerci e di toglierci insieme tante soddisfazioni. Quindi lo scopo in primis è stata la gioia nel ritrovarsi per giocare a pallacanestro con meno “pressioni” rispetto a qualche decennio fa. Poi comunque l’agonismo, lo spirito di squadra e la tenacia sono sempre gli stessi, il fisico un po’ meno ma devo davvero ringraziare e fare i complimenti a tutte le ragazze che c’erano a Malaga (e anche quelle rimaste a casa per motivi personali o di lavoro ma che fanno parte del gruppo) perché nessuna di loro si e’ tirata indietro davanti a nulla ed è stato stupendo condividere con ognuna di loro la gioia per la conquista della medaglia d’argento.

D.: A tuo avviso e in considerazione del tuo ruolo nel CONI, quali sono le criticità che sono emerse in modo prepotente a causa delle pandemia per le giovani generazioni e lo sport e sulle quali stai studiando?

R: Io credo che, a seguito della pandemia, il problema maggiore sia quello di riportare i piccoli e i giovani atleti a fare sport. Purtroppo tanti di loro si sono abituati a stare in casa e a fare poca attività motoria. Tantissime sono comunque le iniziative sportive che sono state create e realizzate per sopperire a questa criticità e sono convinta che riusciremo a recuperarli tutti. Mi auguro inoltre che anche l’attività scolastica non abbia più interruzioni e con questa sia ripresa del tutto anche l’insegnamento dell’educazione fisica negli istituti scolastici. La materia dell’attività motoria non va per niente sottovalutata, sia per l’importanza fondamentale che il movimento fisico ha per la salute nostra e dei giovani, che anche perché lo sport può e deve essere uno sbocco professionale per tanti ragazzi e ragazze. I lavoratori sportivi nelle società, come per esempio dirigenti, arbitri, allenatori, i refertisti etc… sono figure in crescita e che possono essere ricoperte dai nostri giovani in futuro. Lo sport non è solo essere atleti, ma anche coloro che sono in grado di gestire e aiutare l’entourage di
un atleta.

Fonte: Ufficio Stampa

D.: Proprio in qualità di Presidente della Commissione Atleti ti sei impegnata in prima persona per superare il gender gap che, anche nel mondo dello sport, limita la crescita e l’ascesa delle atlete italiane rispetto alle colleghe di altri Paesi. Ci puoi spiegare quanto e perché conta il Fondo Maternità? Centrato questo obiettivo, quali sono gli strumenti per perseguire e centrare la finalità che ha ispirato questo istituto?

R: Il fondo maternità è un traguardo storico per lo sport italiano, ma anche e soprattutto per i diritti delle donne. E’ stata una sfida che, come Commissione Atleti, abbiamo messo subito al centro della nostra attività, insieme alla Giba (Associazione Italiana Giocatori di Basket), al suo
Presidente Avv. Alessandro Marzoli e ad altre associazioni di categoria, che sono stati determinanti per il lavoro e l’impegno svolto. Lo ritengo un risultato delle atlete stesse, che sono le vere protagoniste di questa novità. Dal 2018 le sportive, considerate dalla legge “dilettanti” e alle quali fino ad oggi in caso di gravidanza veniva di fatto risolto immediatamente il contratto, potranno vivere con serenità l’eventuale scelta di diventare mamme. Dal momento che è lo Stato che riconosce loro un’indennità (di 3 milioni di euro già in questo primo anno del fondo) come per tutte le normali lavoratrici. Per raggiungere questo traguardo è stata determinante la volontà del Ministro Luca Lotti, che ringraziamo fortemente, il quale, insieme alla Presidenza del Consiglio, ha trovato risorse e forma giuridica per rendere reale questo diritto anche nello sport. Nella creazione del Fondo il nostro obiettivo è stato quello di riuscire a coprire i nove mesi di gravidanza, dal momento che per le atlete il recupero è un po’ più lungo rispetto ad attività lavorative non sportive. Come Presidente della Commissione Atleti auguro a tutte le atlete un futuro ricco di successi anche nella vita privata, perché credo che diventare mamma sia la vittoria più bella!

D.: Hai mai patito o sofferto per essere una donna, dal talento eccezionale sia chiaro, che pratica uno sport che è stato etichettato come maschile secondo degli stereotipi?

R: Sinceramente da atleta non ho mai percepito né mi è mai pesato il fatto di praticare uno “sport maschile”. Per me lo sport è sempre stato universale e senza distinzioni di genere o di capacità. Probabilmente questa differenza è solo uno stereotipo culturale italiano che però va superato, se consideriamo che ormai sono 18 milioni le donne che fanno sport in Italia e questo dato, negli ultimi 10 anni, è cresciuto dell’ 11, 9%. In generale, lo sport viene ancora spesso concepito come un’attività da uomini, poiché richiede virtù attribuite erroneamente solo ai maschi come aggressività, competitività e forza. Come ho sottolineato nella domanda precedente, non bisogna poi dimenticare il tema della maternità, che rischia di trasformarsi in un ostacolo per la carriera (non solo sportiva!) se l’intero sistema di welfare è costruito a misura d’uomo. Altro fattore di discriminazione è il fattore estetico, legato all’immagine stereotipata della figura femminile nello sport. Ma ancora più eclatante è il gender pay gap nello sport: a parità di disciplina e di livello, le donne vengono pagate meno. Non dobbiamo dimenticare anche che, avendo una minore copertura mediatica, le atlete sono poco appetibili per gli sponsor e quindi vengono pagate meno per le loro collaborazioni con i brand. Il gender pay gap, dunque, non è un problema solo delle professioni tradizionali, ma anche una questione di civiltà, che riguarda una delle espressioni culturali di cui andare più fieri: lo sport. Per provare a risolvere questo problema è fondamentale insistere affinché le organizzazioni sportive migliorino l’equilibrio di genere nei consigli e nei comitati esecutivi,
nonché nella gestione e negli staff tecnici. Anche gli Stati sono chiamati a fare la loro parte: eliminare norme e regolamenti che ostacolano la carriera sportiva delle donne.

D.: Quando credi che sarà possibile, per una campionessa come te tesa al futuro e a obiettivi di crescita ed evoluzione sociale, che una ragazza si avvicini allo sport in una cultura del rispetto e del superamento del pregiudizio?

R.: Io credo innanzitutto che debba cambiare “il trend” nei dibattiti pubblici. I giornali sportivi, per esempio, sono pieni di foto, video che forniscono un’immagine della donna nello sport riduttiva e restrittiva: si guarda solo alla bellezza, al look, ponendo in secondo piano i meriti professionali e i risultati sportivi. In secondo luogo bisogna continuare ad aumentare la presenza delle donne negli ambienti federali, societari e staff tecnici e definire al meglio il regime del lavoro sportivo anche al femminile. Al di la di questi aspetti “tecnici”, io credo fortemente nello strumento dell’esempio: dobbiamo far conoscere alle nuove generazioni quelle donne che, attraverso lo sport, si sono distinte, non solo per aver vinto medaglie o trofei, ma anche per aver migliorato il mondo sportivo (e non solo) in cui sono cresciute e hanno lavorato. Il cosi detto empowerment femminile, del quale tratto per esempio nel mio progetto “Sportive digitali”, che ho ideato insieme alla mia amica Alessandra Ortenzi nel 2019 a inizio pandemia. L’esempio che vogliamo trasmettere è rivolto alle ragazze, alle giovani atlete, perché attraverso le parole delle eroine sportive da medaglia e non, avvertano sempre la motivazione sotto la propria pelle, non abbandonino mai la speranza e possano cogliere le opportunità che questo nuovo futuro sta disegnando per loro. Il digitale ricopre un posto importante, una lettura dovuta al fine di poter realmente portare lo sport al punto di evoluzione e rivoluzione digitale e che questa trasformazione nasca da donne con grande iniziativa e passione per il proprio lavoro non è un caso. Oggi vogliamo attivamente immaginare insieme quello che sarà lo sport femminile del futuro, certe che facendo squadra e attingendo la forza dal passato, possiamo costruire un nuovo percorso.

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