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Juventus, Arrivabene dice tutto su Agnelli, l'inchiesta e l'addio alla Ferrari

L'ex ad bianconero ed ex team principal della Rossa si confessa al Corsera ed esce allo scoperto sulle strategie di Madama e rapporti con Marchiionne

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Fabrizio Piccolo

Fabrizio Piccolo

Giornalista

Nella sua carriera ha seguito numerose manifestazioni sportive e collaborato con agenzie e testate. Esperienza, competenza, conoscenza e memoria storica. Si occupa prevalentemente di calcio

Una confessione a cuore aperto. Maurizio Arrivabene, ex dirigente della Juventus dell’era Agnelli ed ex team principal della Ferrari, parla al Corriere della Sera e fa chiarezza sul suo operato, sui rapporti con Binotto e Marchionne e sulle prospettive del Cavallino.

Arrivabene racconta la sua esperienza alla Juventus

Non ci sta Arrivabene a sentire giudizi troppo severi sulla sua esperienza in bianconero: «Premetto che nel periodo in questione io ero nel cda in qualità di consigliere senza deleghe e in un momento che a causa del Covid ci si riuniva in videoconferenza. Allora la strategia della società mirava ad una forte espansione iniziata in precedenza con l’acquisto di Ronaldo e l’obiettivo era vincere la Champions ed entrare in modo solido e duraturo tra le grandi d’Europa: di conseguenza sono stati fatti altri acquisti, poi il Covid ha complicato le cose. Ho iniziato il mio lavoro da dirigente il primo luglio 2021 trovando una situazione piuttosto pesante a causa degli investimenti precedenti. Ovviamente la pandemia aveva aumentato i problemi, i costi di contratti molto onerosi avevano creato una situazione piuttosto difficile. Cosa dovevo fare, andare in tv e dire abbiamo sbagliato a spendere troppo? Vi immaginate la reazione di tifosi e media? In silenzio mi sono rimboccato le maniche e ho iniziato a lavorare, quell’anno grazie ad alcune vendite e all’acquisto di soli due giocatori, Locatelli e Kean, facemmo un mercato morigerato subendo anche critiche».

Il rapporto con Agnelli

Nell’inchiesta su Juve e plusvalenze c’è stata la richiesta di rinvio a giudizio da parte della Procura di Roma per leu, Agnelli, Paratici e altri 7 indagati: «Le cose vanno avanti. Continuo a credere nella giustizia. Vedremo cosa dirà la Corte Europea. Se con Andrea Agnelli ci sentiamo ancora? Sì».

La sua fu l’ultima Ferrari a lottare per il titolo, Vettel nel 2017 era arrivato a Monza in testa al campionato. Più difficile lavorare in Ferrari o alla Juve?: «Mi date l’occasione per chiarire la mia esperienza alla Ferrari. Nessuno mi ha cacciato, altrimenti dopo non sarei andato alla Juve. Avevo un contratto di quattro anni e non è stato rinnovato, non abbiamo trovato un accordo. Non ero solo team principal ma anche managing director, deleghe date da Marchionne, la Ferrari era stata da poco quotata e la Scuderia doveva essere il fiore all’occhiello».

Il ricordo di Marchionne

Com’era lavorare con Marchionne?: «Un pilota militare ha descritto così il decollo dalla portaerei: “Fare l’amore e sbattere contro un muro a 150 all’ora, tutto insieme”. Era così, emozioni forti. Ma con il passare degli anni ti rendi conto di essere stato accanto a un grande uomo. Aveva un carattere durissimo ma mi ha insegnato e lasciato molto. Pretendeva tantissimo da se stesso e dagli altri. Era normale ricevere telefonate alle 2 o alle 4 del mattino, magari lui era negli Usa, a me non cambiava molto essendo abituato a dormire poco. Ho imparato a capirlo con il tempo, lui decideva veramente. Oggi invece vedo tanti manager di alto livello che hanno difficoltà a scegliere e non si assumono rischi. Così si evita di decidere demandando ai superiori, soltanto per mantenere la propria poltrona. In Philip Morris ci insegnavano a rischiare, a cercare strade nuove, se sbagliavi dovevi assumerti la responsabilità: in Ferrari lo facevo sempre».

Infine un pensiero sulla Ferrari di oggi «I piloti vivono di alti e bassi. In Charles Leclerc ho creduto sin dal primo giorno: prima di essere inserito nell’Academy si era presentato in ufficio impressionandomi. Non abbassava lo sguardo, mi fissava dritto negli occhi. Da quell’incontro mi sono convinto a prenderlo. Un vecchio maestro in F1 mi aveva detto che un campione si riconosce da come ti guarda. Mi stupì ancora quando, poco dopo la morte del padre, salì sul volo della squadra per la gara di F2. Gli chiesi: “Charles, che ci fai qui?”. E lui: “C’è una corsa, voglio vincerla per mio padre”. E vinse. Lewis Hamilton può aiutare Charles a crescere, il primo avversario di un pilota è il suo compagno. Ma conta di più la macchina che avrà e l’unico fenomeno è Verstappen. Ma neanche lui è in grado di abbassare da solo 2-3 decimi come sento dire. Sainz lo conosco poco, con il papà ci eravamo parlati e lui ha sempre creduto nel figlio. Ci sono genitori che aiutano, come lui, e altri che creano problemi». Si è parlato di tensioni fra lui e Mattia Binotto: «Non credo proprio, questa storia è stata alimentata da dentro o da fuori, ognuno di noi aveva il suo ruolo. Ma una coppia ben fatta era Marchionne-Arrivabene».

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