Tornato al Milan nello scorso mese di agosto, nove anni dopo il traumatico addio scandito dai fischi nell’ultima partita contro la Roma, Paolo Maldini è il simbolo del nuovo corso del club rossonero, che fonda le proprie fortune sul campo sulla determinazione e l’attaccamento alla maglia di Rino Gattuso e sulla qualità di Gonzalo Higuain, subito calatosi nei panni del trascinatore e del leader di una squadra che punta a tornare in Champions League dove manca dal 2014, attraverso il campionato oppure attraverso la via alternativa di vincere l’Europa League.
Maldini, che nella nuova società ricopre il ruolo di direttore sviluppo strategico area sport, ha però parlato soprattutto del proprio passato da giocatore rossonero intervenendo al ‘Festival dello Sport’ in corso di svolgimento a Trento.
Del resto da raccontare c’è tanto, basti solo pensare ai miti che hanno accompagnato la carriera di Maldini dalla panchina, da Sacchi a Capello fino ad Ancelotti, allenatore dopo essere stato compagno di tanti trionfi: “Parliamo tanto di Capello, Sacchi e Ancelotti, ma quello che mi ha insegnato il calcio è stato Liedholm, che ha avviato il ciclo del Milan, mentre quello che mi sono goduto di più è stato Ancelotti, perché avevo anche un’età diversa. Essendo un emotivo a 34-35 anni le emozioni si vivono in maniera differente”.
Riavvolgendo il nastro, però, non ci sono solo ricordi positivi, come quello legato all’inizio dell’epopea berlusconiana (“Ci disse che saremmo diventati i più forti al mondo è un pò ridevamo, ma dall’arrivo poi ci rendemmo conto che non era una persona normale…”), perché non manca qualche stoccata.
Destinatari, proprio Sacchi e la parte di tifoseria con la quale Maldini non ha mai legato: “Io non mi pento di nulla, ancora oggi non so cosa contestassero quel giorno. Sacchi? È un peccato che non abbia allenato più a lungo, ma da noi è arrivato al momento giusto. Era così maniacale che lui stesso è rimasto prigioniero di quel modo d’essere. Lo stress lo ha consumato, spesso i geni sono così. Ho sempre pensato come mai non avessimo vinto tanto con Sacchi in Italia, forse è stato perché ha sempre voluto giocare alla stessa maniera anche se cambiavano le condizioni attorno, come avversari e campi. Capello invece è stato un manager e un grandissimo allenatore…”
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