Il capitano ha un sogno nel cassetto: diventare il primo atleta della storia dell’atletica italiana maschile a detenere tutti e tre i maggiori titoli contemporaneamente. Perché a Gianmarco Tamberi piace ammirare quella splendida distesa di medaglie d’oro che fanno bella mostra di sé sul salotto di casa: la prima l’ha riportata a casa da Tokyo, la seconda da Monaco di Baviera, dove un anno fa ha conquistato il titolo europeo. La terza, che ancora è soltanto un proposito, vorrebbe portarla a casa da Budapest.
Campione in carica di olimpiadi, mondiali ed europei: è questo il meraviglioso piano che Gimbo ha messo in atto sulla via che conduce alla rassegna iridata in terra magiara, un piano che peraltro potrebbe condividere con Marcell Jacobs, che nell’ultimo biennio ha fatto la sua stessa strada (oro olimpico ed europeo, ma forse sarà più dura prendere anche quello mondiale). L’abbraccio tra i due sulla pista di Tokyo, vincenti a distanza di pochi minuti l’uno dall’altro, è l’immagine simbolo dell’atletica italiana del nuovo millennio. Sognare di emularla è quanto di meglio entrambi possono chiedere a se stessi, oltre che al destino.
Tamberi, niente più acciacchi
Tamberi soprattutto arriva a Budapest con una mente totalmente differente rispetto a quella che l’aveva accompagnato nella prima parte della carriera. Da quando si è separato dalla guida tecnica del papà Marco ha cambiato completamente orizzonte: Giulio Ciotti, il suo attuale allenatore, gli ha permesso di spostare il mirino e cambiare abitudini che avevano finito per condizionarne anche il rendimento. Tanto che alla vigilia del mondiale la vera “rivelazione” offerta da Gimbo ha riguardato proprio il suo stato di saluto fisico e mentale: “Non sono mai stato così bene in tutta la mia vita, senza dolori alle gambe, né alla schiena”.
A 31 anni, Tamberi ha potuto scoprire il piacere di concedersi una vigilia fatta solo di concentrazione per ciò che riguarda l’aspetto tecnico, riuscendo a tenere sotto controllo quello mentale. “Ho vinto tante medaglie in questi anni, alcune anche d’oro, ma mai a un mondiale. È un chiodo fisso che ho da sempre: a Tokyo ho vissuto un’emozione grandissima, ma per completare il cerchio sento di aver bisogno di portare a casa anche una medaglia d’oro in una rassegna iridata. È l’unica medaglia che voglio: non mi accontenterò di un argento o di un bronzo. Con il nuovo staff tecnico abbiamo impostato il lavoro per arrivare a Budapest nelle migliori condizioni, e centrare quella vittoria che sin qui mi è sempre sfuggita”.
Ai Mondiali con la “pace mentale”
Per raggiungere la forma perfetta, Tamberi e Ciotti hanno lavorato duramente durante l’inverno sotto l’aspetto fisico, prima ancora che tecnico. “Mi sono detto che se fossi stato bene sarebbe venuto tutto più semplice e naturale, e Giulio ha capito ciò di cui avevo bisogno. Quando devi fare i conti con acciacchi e problemini non riesci mai a fare bene il tuo lavoro, così stavolta ho preferito impostare un tipo di lavoro differente, con minori carichi e più attenzione ai dettagli”.
La separazione dal papà allenatore
Ma a cambiare è stato soprattutto l’aspetto psicologico: “Con mio padre Marco s’era creata una situazione complicata, c’era tensione e non riuscivamo più ad essere in piena sintonia su ciò che facevamo e come volevamo farlo. C’era disallineamento tra le mie sensazioni e le sue convinzioni. Adesso sento una “pace mentale” inedita e benefica. Dopo 12 anni con lo stesso coach avevo bisogno di una scossa. Me ne resi conto nell’ultimo meeting di Diamond League lo scorso settembre, a Zurigo: saltai 2.34 ed era trascorso più di un mese dall’ultimo allenamento con mio padre. Cominciava un nuovo capitolo per me, e questa storia mi ha portato oggi a Budapest a pensare di poter dare l’assalto all’unico oro che manca alla mia collezione. Alla fine vedrete il solito Gimbo: salto alla stessa maniera, ma sento qualcosa di diverso dentro di me. E poi nei grandi appuntamenti a me scatta sempre quella scintilla che mi fa andare oltre i miei limiti. Che misura servirà per vincere? Penso 2.37. E sento di averla nelle gambe”.