Era un toscano di scoglio, Aldo Agroppi, scomparso oggi a 80 anni a Piombino, la sua città natale, dove da qualche giorno era ricoverato. Lui rivendicava sempre con orgoglio la differenza con i toscani di spiaggia, più morbidi e piacioni. Agroppi buonista non lo è stato mai: da giocatore ribelle ad allenatore polemico fino a opinionista velenoso. Se ne va una leggenda del Torino che amò anche Firenze e Perugia e che ha sempre avuto un nemico giurato, ovvero la Juventus.
- La carriera di Agroppi calciatore
- L'incrocio con Meroni
- L'avversione per la Juventus
- La carriera da allenatore
La carriera di Agroppi calciatore
Sulla maglia aveva appiccicato il numero 8: non era un funambolico trequartista ma neanche un mediano tignoso. Calzettoni bassi alla Sivori, il suo idolo, e il Torino nel destino. Dopo un inizio nelle giovanili del Piombino, va infatti ai granata che lo fanno girare: Genoa, Ternana e Potenza, prima dell’esordio in A con i granata. Al Torino resta per otto stagioni dal 1967 al 1975. Poi conclude la carriera di calciatore con due campionati al Perugia. «La mia vita in maglia granata è stata meravigliosa – disse sempre – e non ho rimpianti per non aver giocato in grandi club».
L’incrocio con Meroni
Amava alla follia anche Gigi Meroni e le coincidenze sono singolari. “Ho conosciuto Meroni nell’estate del 67, in ritiro col Toro – raccontò in un’intervista – Con lui è stato facile legare. Mi sono bastati quei pochi mesi, da luglio a ottobre quando è morto, per capirlo, per apprezzare l’arte che aveva dentro. Ricordo che in ritiro un giorno mi telefonò spacciandosi per un giornalista e mi intervistò. E io ci cascai”. L’esordio in A è il ricordo più bello e quello più brutto, perché coincise con la morte di Meroni: “15 ottobre 1967, siamo in ritiro, Edmondo Fabbri mi chiama in disparte e mi comunica che avrei esordito in A col Torino contro la Sampdoria. Avrei dovuto marcare Bobo Vieri, il padre di Cristian, giocatore di grande talento per il quale Bernardini stravedeva. Ricordo ancora la gioia e la tensione del momento, la telefonata ai miei genitori.
Vinciamo 4-2 e quella vittoria fu maledetta. La sera ceniamo nel solito albergo. Dopo le partite restavamo in ritiro, perché Fabbri voleva tenere sotto controllo soprattutto Combin e Poletti, due scavezzacolli. Quella sera insistemmo per esser lasciati liberi e Fabbri ci fece andare a casa. Non se lo perdonò mai. Abitavo nello stesso palazzo di Merighi, il centrocampista sudamericano proveniente dal Modena. È lui a darmi la notizia della morte di Meroni. E io a dirgli: ma sei sicuro, non ci credo. Ma come si può morire a 23 anni, in una strada poco illuminata del centro di Torino, investito da un’auto guidata da un suo grande tifoso? (n.d.r. Romero, che sarebbe poi diventato presidente del Torino)”.
L’avversione per la Juventus
L’odio nei confronti della Juve invece si sviluppò negli anni. Campionato 1971-72, testa a testa Juventus-Torino. “A Genova, contro la Samp, stavamo sotto per 2-1, anticipo Battara di testa e segno. La palla è dentro di 20 centimetri e Lippi la butta fuori. Ho ancora le foto e i filmati, anche se non c’era la moviola”. Con Lippi (toscano di spiaggia) non si sopportano. “Mi ha fatto una cosa che non mi doveva fare, sarebbe troppo lungo parlarne e non mi va. Comunque ognuno per la sua strada. Ma quello che mi dà più fastidio che a distanza di tanto tempo continua a dire che la palla era fuori. Barbaresco, ottimo vino e pessimo arbitro, prima convalida e poi annulla. Ma non è finita qui. Alla quartultima giornata un altro arbitro di Cormons, Toselli, annulla a Toschi un gol al 90’: fischia la fine mentre il pallone sta per finire dentro. Il Milan vince, noi perdiamo lo scudetto di un punto. Indovinate chi lo ha vinto?
Ma la Juve ovviamente. Eppure da ragazzino simpatizzavo per la Juventus. Poi quando ho cominciato a giocare nelle giovanili del Toro ho capito che cosa significa avere di fronte la Juve. Sì, perché cominciavano ad aiutarla fin da campionati giovanili. C’era il fascino della società, di grandi dirigenti come gli Agnelli, Boniperti e gli arbitri davanti ai bianconeri diventavano umili, servitori della Juve.
“Ho sempre detto cose che mi pareva fossero sotto gli occhi di tutti, ovvero che gli arbitri avessero una sudditanza nei confronti della Juventus e, non a caso, ogni volta che aprivo bocca, mi veniva risposto con attacchi molto offensivi. Ecco perché nel tempo mi sono di più allontanato da questo calcio che vive sempre troppo di ipocrisie. Meglio godermi la famiglia, gli amici e le partite di carte. Tanto chi vuole sapere come la penso basta che bussi alla porta di casa mia. Io apro a tutti e mi confronto con tutti, basta non essere ordinari e superficiali”.
La carriera da allenatore
Anche da allenatore la sua carriera è stata importante: tra i successi la promozione in Serie A alla guida del Pisa di Romeo Anconetani nel 1981/82. Agroppi è stato anche sulle panchine di Fiorentina in Serie A, Perugia, Padova e Como ma il secondo grande amore, quello che ha contraddistinto la parte finale della sua carriera da calciatore, è stato il Perugia. “Sono stato capitano dei grifoni e il giocatore che con la mia esperienza ha aiutato a rendere la squadra competitiva anche per la serie A – ricordò a Italpress Agroppi -. Proprio a Perugia sono diventato poi allenatore e da lì sono iniziati altri 25 anni della mia seconda vita, ovvero dal Pescara alla Fiorentina”.
Prende il posto di Radice sulla panchina viola e perde subito 4-0 al debutto con l’Udinese, il primo gol dopo un minuto. Disse: “Ho perso 3-0 e non 4-0, sul primo gol non mi ero ancora seduto in panchina. Finì malissimo: “L’anno che andammo in B nel 1993 fu rocambolesco, io accettai una sfida folle di Vittorio Cecchi Gori ma capivo che non ero ben voluto da tutti e fui esonerato, anche se colpe mie non me ne sentivo troppe. Finisco al Como. Eravamo salvi ma vengo esonerato. Il Como era diventato una succursale del Milan che ci aveva dato in prestito Borghi, il centrocampista argentino acquistato da Berlusconi. Un giorno fui invitato a cena ad Arcore, il cavaliere mi invitava a dare più spazio a Borghi”.
Agroppi non gli dà ascolto: Borghi gioca soltanto sette partite e non segna. Il tecnico ci rimette il posto. L’anno dopo, quando è possibile schierare tre stranieri, Berlusconi si lascia convincere da Sacchi: dopo Gullit e Van Basten il terzo straniero sarà Rijkaard. Per Borghi non ci sarà spazio. Conclusa l’avventura di allenatore, si era fatto apprezzare per quella di commentatore, anche sulla Rai. Tredici anni fa fu vittima di un attacco cardiaco ma se la cavò. E fino alla fine è sempre rimasto un inimitabile grillo parlante, sempre pronto a commentare a modo le vicende calcistiche. Da toscano di scoglio.