Per chi ha avuto il privilegio di vederlo giocare dal vivo, Kobe Bryant era un americano italiano. Un migrante del talento cestistico che masticava italiano e spendeva un elogio arguto e intelligente, come le sue esternazioni pubbliche hanno dimostrato. Le sue incursioni nei luoghi che lo videro bambino, nella provincia vera dell’Italia degli anni che furono, dalla Toscana a Reggio Calabria per via del padre che approdò in Italia alla ricerca di quel posto al sole che l’America, la grande America del basket, gli aveva negato. Quei campetti di polvere e luce, in un Sud poco avvezzo ad appassionarsi a qualcosa di diverso dal calcio, furono i primi ad assistere allo straripante talento di Kobe.
In fondo, Bryant era arrivato ad appena 6 anni e ha amato molto l’Italia, la sua Italia, che aveva vissuto fino a 14 anni e verso cui nutriva un amore viscerale. Non solo vantava una rara capacità di esprimersi, mantenendo ironia e prontezza in una lingua appresa in pochi ma importanti anni di formazione, ma il Black Mamba aveva coltivato non troppo segretamente il sogno di tornare in Italia quando sarebbe stato il momento opportuno con le sue figlie. Anche con la piccola Gianna.
Kobe e l’infanzia italiana
Kobe Bryant amava l’Italia. E l’amava perché in quei sette anni passati nel nostro Paese, dai 6 ai 14 anni, aveva imparato, per davvero, a giocare a pallacanestro. A diventare leggenda. Nel marzo del 2019 venne chiamato a sorteggiare i gironi del mondiale di basket giocato poi alla fine dell’estate e, in un’intervista rilasciata alla FIBA aveva ricordato l’importanza di quegli anni: “Crescere dall’altra parte dell’oceano mi ha dato un incredibile vantaggio perché avevo imparato i fondamentali. Non come fare il giocoliere ma come muovermi senza palla e usare i blocchi, utilizzare entrambe le mani, passare la palla in maniera efficace”. Metodi che in America non avrebbe trovato. “Facevamo solo una partitella a settimana, se eravamo fortunati”.
L’arrivo in Italiae l’esordio
Suo padre Joe, anche lui cestista e con cui ha rapporti difficilissimi, aveva deciso di venire a giocare in Europa portandosi dietro la famiglia. Quattro città dove il basket è, ancora oggi, legato a Kobe e ai suoi: Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia. Kobe era piccolo ma giocava già con i più grandi. Nel torneo Plasmon aveva 6 anni, gli altri 9. Un giocatore davvero letale, quando si trattava di palla a spicchi e di un campo da basket, anche allora. Anche a Reggio Calabria, anche in Emilia.
Il sogno di tornare a vivere nel Bel Paese
Nel 2016 fu intervistato da Radio Deejay esprimendosi in un italiano quasi da manuale. “Lo parlo poco, ogni tanto con le mie sorelle”. L’occasione era quella di incontrare, in Italia, alcuni giovani fan per ricordare loro che “la cosa più importante è che quella che state facendo ora”. Incontrare i ragazzi, fornire loro gli insegnamenti derivanti dalla sua esperienza, era diventato un lavoro, al pari del cinema, del suo documentario.
Amava l’Italia, e non è un’espressione di convenienza o una sorta di corollario. In fondo si sentiva legato a luoghi poco mondani, nelle sue rimpatriate a Montecavolo, nel Reggiano, o di quella volta che alle 7.15 di mattina ha suonato il campanello di un’amica d’infanzia a Cireglio, 750 abitanti a 20 minuti d’auto da Pistoia. Episodio che oggi viene ricordato da molte testate e siti. Si sentiva formato ed educato da quei campetti di provincia, quella vera. “Il mio cuore è italiano”, aveva dichiarato. E in effetti un ringraziamento emozionato e sentito in italiano lo ha fatto all’Oscar a sua moglie Vanessa.
E così aveva trasmesso l’affetto per quei luoghi anche alle sue quattro figlie, avute dalla compagna con lui da 20 anni, nonostante i momenti critici. Natalia Diamante, Bianka Bella e Capri Kobe e Gianna Maria-Onore. Gianna, 13 anni, è morta con lui, nell’incidente in elicottero che lo ha ucciso a soli 41 anni.
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