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Tour de France, il pagellone finale: Pogacar e Vingegaard su un altro pianeta, Girmay e Cavendish nella storia

Pogacar è un alieno, ma Vingegaard è stato commovente. Evenepoel, prova superata. Girmay, Cavendish e Carapaz nella storia. Male Van Aert

Pubblicato:

Roberto Barbacci

Roberto Barbacci

Giornalista

Giornalista (pubblicista) sportivo a tutto campo, è il tuttologo di Virgilio Sport. Provate a chiedergli di boxe, di scherma, di volley o di curling: ve ne farà innamorare

Ventisei anni dopo, Tadej Pogacar la storia l’ha riscritta per davvero: prima di lui solo 7 corridori avevano conquistato l’ambitissima doppietta Giro-Tour nello stesso anno, ma da adesso la compagnia degli “eletti” s’è allargata anche alla piccola Slovenia. Merito del ragazzo di Kasenda che sulle strade di Francia ha completato l’opera mirabilmente messa in piedi a partire dal recente Giro d’Italia. Approfittando magari di un Vingegaard non al massimo della forma (per ovvie ragioni), al quale ha già dato appuntamento per il sesto capitolo della saga nel 2025. Perché ormai il Tour è affare loro: dal 2020 a oggi, nessun altro essere umano ha saputo avvicinarsi agli alieni sopra descritti. E comunque a fine corsa un bel pagellone ci sta sempre bene.

Promossi: storico Girmay, ma anche Carapaz non scherza

  • TADEJ POGACAR 10 E LODE. Qui bisognerebbe scomodare anche i numeri, perché forse nemmeno la lode rende bene l’idea di ciò che Tadej ha saputo fare. Partiva come il grande favorito e ha mantenuto fede alle attese: eccetto un mini passaggio a vuoto nella tappa di Le Lioran, beffato allo sprint di Vingegaard, durante tutto il Tour Pogacar è stato il padrone assoluto delle operazioni. Del resto non si vincono 12 tappe su 42 nell’arco di meno di tre mesi se non si è fuoriclasse: in Francia bissa le 6 del Giro, ma è il modo col quale lo fa che rende tutto dannatamente leggendario. Veste la maglia gialla 19 volte sulle 21 disponibili (al Giro erano state 20), gioca sempre si più tavoli, non lascia nulla d’intentato. Arriva persino a prendersi qualche rimbrotto da chi comincia a ritenere antipatico questo suo modo di correre sempre all’attacco. È un difetto di molti: lamentarsi anche di cotanto bene di Dio. L’aspettavamo da decenni uno così. L’auspicio è che possa regalare altre annate come queste. Ah, piccola postilla: non andrà alla Vuelta, ma quanto sarebbe stato bello vederlo anche vestito di rosso…
  • JONAS VINGEGAARD 9,5. Meriterebbe anche 10, ma i piccoli cedimenti nelle frazioni alpine suggeriscono di limare qualcosina, al netto della cronometro finale chiusa davanti a Evenepoel. Detto ciò, non cambia nulla: Vingegaard a questo Tour non doveva neppure presentarsi, e invece c’è stato, e se non fosse stato per lui c’avrebbe perso anche Pogacar. Che almeno un rivale vero l’ha trovato, tra l’altro vedendoselo sbucare davanti nell’unica frazione in cui s’è fatto sorprendere allo sprint. Vingo è stato commovente: ci porteremo dietro il rimpianto di non averlo visto al 100% della forma, perché sarebbero state botte da orbi. Ha dimostrato però di essere un campione vero, uno che merita rispetto e ammirazione. È il vincitore morale del Tour 2024. E un degno pretendente a quello che verrà.
  • BINIAM GIRMAY 9. Ha riscritto la storia del proprio paese e del proprio continente. Perché tanta Africa come quest’anno al Tour non s’era mai vista: bravissimo a sfruttare qualche passaggio a vuoto di Philipsen, bravissimo a fiondarsi in ogni buco possibile. La maglia verde (e le tre tappe vinte) lo ripaga del coraggio mostrato in questi anni nel voler rendere possibile ciò che agli occhi del mondo sembrava impossibile. Ha vissuto le tre settimane che possono cambiargli definitivamente la carriera, utili per far capire al mondo della “borghesia ciclistica” che il duro lavoro alla lunga paga. Anche in Italia cominciassero a prendere appunti…
  • RICHARD CARAPAZ 8,5. E bravo il Giaguaro, che zitto zitto s’è portato via proprio un bel vassoio d’argenteria dalla terra di Francia. Nell’ordine: maglia gialla indossata per un giorno, una vittoria di tappa, due premi della combattività e la classifica degli scalatori, con la maglia a pois “sottratta” a quel Pogacar che a un certo punto c’aveva fatto la bocca. Carapaz ha riscritto una volta di più la storia del proprio paese: in Ecuador possono andare orgogliosi di un corridore che ha risposto alla delusione per la mancata convocazione per la prova olimpica (lui che è campione in carica) regalandosi un Tour luccicante. Nessuno gli chiedeva di vincere o salire sul podio, ma lui ha preso tutto ciò che umanamente poteva raggiungere. Chapeau.

Evenepoel, prima prova superata. Cavendish leggendario

  • REMCO EVENEPOEL 8. Debuttante alla grand boucle, e subito sul podio. Per carità: mai in grado di dire la sua per la vittoria finale, e con Vingegaard onestamente il confronto in salita è stato comunque appannaggio del danese, al netto di una terza settimana nella quale Remco è cresciuto e ha provato a mandare segnali importanti. Questo Tour era un banco di prova notevole: nel suo percorso di crescita, il terzo gradino del podio vale tanto, anzi tantissimo. Ha vinto una crono (quella adatta alle sue caratteristiche), ha tenuto botta quando c’è stato da soffrire, ha chiuso col sorriso. Ma contro quei due là (per ora) c’è solo da mettersi in fila.
  • MARK CAVENDISH 7,5. Le lacrime all’arrivo sul Col de la Couillole sono ben diverse da quelle nascoste nel corso della maledetta prima tappa, quando ha seriamente rischiato di vedere infranto il sogno di regalarsi quella maledetta vittoria numero 35. Che è arrivata alla seconda occasione utile, nello sprint di Saint-Vulbas, quello che l’ha consacrato nella leggenda. Subito dopo aver staccato Merckx ha chiesto a Pogacar di lasciargli almeno questo record (ma è già a 17 vittorie di tappa, quindi a metà rispetto alle 35 del britannico), ma intanto può gioire per aver vinto la sua scommessa. Si ritira con la consapevolezza di aver dato fondo a ogni residua stilletta di energia: ci mancherà Mark, ma il viaggio è stato bellissimo.
  • ROMAIN BARDET 7. Nell’ultimo Tour trova quella maglia gialla che ha inseguito una vita intera. E la trova nella prima tappa, quando nessuno c’avrebbe scommesso sopra un euro. Romain s’è accomiatato come meglio non avrebbe potuto e i suoi tifosi hanno reso le strade di Francia ancora più belle e colorate.
  • JASPER PHILIPSEN 6,5. Alla fine tre tappe l’ha portate a casa, ma fanno più notizia quelle dove è arrivato dietro a Girmay o qualche altro rivale. Era il grande favorito per la maglia verde, invece l’ha vista finire sulle spalle dell’eritreo. Aveva il treno migliore (e anche le gambe), ma ha commesso qualche errore di troppo.

Le delusioni: Ciccone senza acuti, malissimo Van Aert

  • GIULIO CICCONE 5,5. Era l’unica carta italiana (assieme a Bettiol) per provare a infrangere il tabù di una vittoria di tappa che permane ormai da 106 frazioni (nell’era Pogacar-Vingegaard italiani sempre all’asciutto). Puntava al bis alla maglia a pois, ma non è mai stato della partita. Puntava a conquistare una top ten e l’ha persa nella crono conclusiva. Alla fine ha fatto esperienza (tanta), ma bisognerebbe capire quanto fine a se stessa. Un consiglio? Il Giro è probabilmente il vero grande obiettivo che può porsi da qui ai prossimi 3 anni. Non un ripiego, semmai un vestito cucito più su misura.
  • MATHIEU VAN DER POEL 5. S’è sfogato negli ultimi giorni spiegando che “se questi sono i grandi giri, non ha più senso per me venirli a correre”. Per uno specialista da classiche come lui, vedere le fughe quasi sempre riprese è un brutto segnale. MVDP in Francia è sbarcato in appoggio a Philipsen (e tutto sommato ha eseguito le consegne) e per cercare fortuna, senza trovarla. Almeno potrebbe aver trovato la gamba per olimpiadi e mondiali, il suo terreno di caccia preferito.
  • WOUT VAN AERT 4,5. Un altro che stavolta ha sbagliato tutto quel che c’era da sbagliare. Tre volte piazzato in seconda posizione allo sprint, ma davvero in grado di dire la sua in volata come nelle tappe da avventurieri. La preparazione monca dopo la caduta alla Dwaars ha pesato, ma la sensazione è che questa sia stata un’annata nella quale Van Aert ha sbagliato tanto, più di quello che si potesse immaginare. Dura che possa dire la sua a Parigi o Zurigo.
  • INEOS GRANADIERS 4. D’accordo, il decennio dominante è ormai un lontano e sbiadito ricordo, ma da qui a pensare di non essere mai in grado di lasciare un’impronta un po’ ce ne passata. Rodriguez ha chiuso settimo, ma a 25′ da Pogacar. Bernal purtroppo non è più Bernal, Pidcock c’ha provato, ma non è stato all’altezza. Zero vittorie di tappa e nulla da segnalare: davvero un Tour da dimenticare.

Il resto del mondo: l’UAE la fa da padrona

Pot-pourri finale: Joao Almeida (7) è il primo degli umani, quarto da gregario e con pieno merito (se avrà la possibilità di essere capitano, magari al Giro, la UAE può puntare su di lui). Bene Adam Yates (7), difficile da giudicare Juan Ayuso (5,5) che anche prima del ritiro per Covid non aveva brillato. Primoz Roglic (5,5) al solito s’è estromesso da solo con l’ennesima caduta, ma avrebbe faticato a finire sul podio contro questo Evenepoel.

Jai Hindley (5), Enric Mas (5) e David Gaudu (4) mai della partita in salita. Sorprendono Derek Gee (7,5), primo canadese di sempre in top ten, e Matteo Jorgenson (7) che dimostra di essere affidabile oltre ogni ragionevole dubbio. Ben Healy (6,5) sempre all’attacco, Jonas Abrahamsen (7) ha onorato al massimo la maglia a pois, Dylan Groenewegen (6,5) almeno una volata l’ha portata a casa. E gli italiani? Male Alberto Bettiol (5), utile Gianni Moscon (6), poi poco da aggiungere.

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