Questa è una storia che profuma un po’ di leggenda, un po’ come quelle favole in cui sai già che arriverà il lieto fine. È una storia vecchia più di 30 anni che a distanza di più di tre decenni ha radunato 8.000 persone nel cuore di Belgrado per una normale amichevole, che pure di “normale” non aveva proprio nulla.
La sfida tra una squadra che da sempre è nell’elite europea (il Partizan) e una attualmente di stanza nella seconda divisione spagnola (il Fuenlabrada), che pure all’inizio degli anni ’90 divenne famosa nel resto del continente per aver permesso la costruzione di uno dei miracoli sportivi più belli e indimenticabili che la storia della pallacanestro europea, e non solo.
Terminate le emozioni del mondiale, eccone un’altra. Una rimpatriata dal sapore nostalgico, che ha acceso di passione e di orgoglio una notte di fine estate nel cuore della culla cestistica dei Balcani.
- Il battesimo di Zeljko
- L'ultimo trionfo della Jugoslavia unita
- La soluzione inaspettata
- A Fuenlabrada c’è un palazzetto nuovo e inutilizzato...
- Sasha Djordevic e Sasha Danilovic
- L'ostacolo più impervio: la Virtus Bologna
- Alla final four c'è l'Olimpia Milano
- La celebrazione 31 anni dopo
Il battesimo di Zeljko
Nel 1991 le vie e le piazze di Belgrado erano piene di gente, gran parte delle quali però indossavano un elmetto. I venti di guerra nella Jugoslavia del tempo soffiavano forti e di lì a poco sarebbero sfociati in un conflitto che per 4 lunghi e dolorosi anni avrebbe inflitto perdite un po’ su tutti i fronti, portando alla disgregazione del blocco slavo.
Quell’anno a un ragazzo 31enne, in procinto di salpare da capitano con l’ultima nazionale jugoslava della storia verso l’Europeo organizzato dall’Italia, venne chiesto di prendere su due piedi una decisione non comune per uno della sua età: “Aca” Nikolic, una sorta di “santone” di casa Partizan, per voce del suo club andò dal capitano chiedendogli di svestire i panni del giocatore per indossare quelli di allenatore.
Zeljko Obradovic ci pensò su qualche ora, poi rispose a se stesso che quell’occasione non poteva essere lasciata cadere invano.
L’ultimo trionfo della Jugoslavia unita
Accettò di passare dal campo alla panchina, lasciando la nazionale orfana della sua guida, per giunta in uno dei momenti più complessi e delicati della storia della regione balcanica, con giocatori “costretti” a chiamarsi fuori (è il caso del croato Petrovic, memore anche del diverbio con Vlade Divac al termine della finale del mondiale del 1990, e dello sloveno Zdovc, al quale la neonata federazione locale intimò di non prendere parte alla fase finale) per via delle crescenti tensioni.
La Jugoslavia alla fine quell’Europeo lo vincerà, come da pronostico, battendo in finale a Roma l’Italia, e sarà l’ultimo trionfo della sua storia “unita”.
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La soluzione inaspettata
Il conflitto nel Balcani e la risoluzione 787 dell’ONU, che impediva alle formazioni dell’area jugoslava di prendere parte agli eventi sportivi, finì per condizionare la marcia d’avvicinamento del Partizan all’Eurolega 1991-92.
La squadra bianconera aveva diritto a parteciparvi avendo vinto il campionato jugoslavo (all’epoca non esisteva ancora il concetto di “lega chiusa” come oggi) e Obradovic era desideroso di confrontarsi per la prima volta sul palcoscenico continentale nelle vesti di allenatore.
L’impossibilità però di giocare le gare casalinghe a Belgrado sulle prime sembrò infrangere il proposito: il Partizan avrebbe dovuto cercare una casa altrove, e la Dorna (oggi proprietaria del mondiale di motociclismo) a sorpresa diventa il grimaldello per risolvere il problema.
A Fuenlabrada c’è un palazzetto nuovo e inutilizzato…
Un amico spagnolo informa Obradovic che a Fuenlabrada, non molto distante da Madrid, c’è un palazzetto dello sport nuovo di zecca e praticamente inutilizzato che sarebbe perfetto per accogliere le gare europee dei crno-beli.
La federazione europea accetta la soluzione e il Partizan programma le 7 gare casalinghe della competizione (all’epoca aperta a 16 squadre, divise in due gironi da 8) al “Fernando Martin”, così chiamato in onore dello sfortunato giocatore spagnolo morto pochi anni prima in un incidente stradale.
Sasha Djordevic e Sasha Danilovic
Quella squadra è giovane in tutto, sia in campo che in panchina, ma ha talento da vendere e due leader conclamati come Sasha Djordevic e Sasha Danilovic, che seppur divisi dagli strali del conflitto (Djordevic è nato a Belgrado, Danilovic a Sarajevo da una famiglia originaria dell’Erzegovina: impossibile all’epoca andare d’accordo) in campo si intendono a meraviglia.
Fuenlabrada si ritrova catapultata in una nuova dimensione. E il pubblico spagnolo impiega poco a familiarizzare con quegli slavi arrivati da chissà dove: il Partizan fa breccia nel cuore della gente, addirittura diventa la squadra del cuore di tanti appassionati locali, che lo sostengono in tutto e per tutto anche quando c’è da sfidare la Joventut Badalona, all’epoca la squadra più forte di Spagna.
L’ostacolo più impervio: la Virtus Bologna
In qualche modo Obradovic riesce a trovare la quadra e grazie a un ruolino di 9 vittorie e 5 sconfitte arpiona il quarto posto nel girone, qualificandosi per i quarti di finale. Dove però l’ostacolo appare troppo impervio: la Virtus Bologna ha un organico fortissimo e un coach giovane ma di grande prospettiva (Ettore Messina).
Un po’ a sorpresa la FIBA acconsente di far disputare gara 1 a Belgrado nella primavera del 1992, approfittando di un allentamento del conflitto: paradossalmente all’Hala Pionir, la casa dei grobari, non c’è il tutto esaurito e nemmeno la spinta del pubblico di Fuenlabrada, ma il Partizan vince lo stesso, presentandosi in gara 2 a Bologna con l’opportunità di chiudere la serie.
Alla final four c’è l’Olimpia Milano
La Virtus però pareggia i conti e sempre a Bologna va in scena gara 3, che vede però imporsi di nuovo gli slavi, col PalaDozza che a fine gara da in escandescenza sfogando tutta la propria rabbia all’indirizzo dei giocatori avversari.
Alla final four di Istanbul c’è un altro pericolo italiano: è l’Olimpia di Antonello Riva, Riccardo Pittis e Davide Pessina, soprattutto di Darryl Hawkins, “Thunder Chocolate”. Niente da fare: i crno-beli hanno il vento in poppa e vincono 82-75.
In finale ritrovano quella Joventut Badalona già battuta a Fuenlabrada: a 8” dalla fine gli spagnoli sono avanti di due punti, poi Djordjevic inventa la tripla (contro ogni legge della fisica) che spedisce il Partizan nella leggenda. Da allora, nessun club balcanico ha più vinto l’Eurolega, quasi a voler cristallizzare ancor più quell’impresa.
La celebrazione 31 anni dopo
Il legame tra Belgrado e Fuenlabrada, da allora, è rimasto forte, superando il tempo e lo spazio (oltre 2.500 chilometri di distanza). La leggenda del “Partizan de Fuenlabrada” è stata trascritta magistralmente in una docuserie in tre puntate che ha fatto conoscere anche ai più giovani la bellezza e l’unicità di quella storia.
E ogni tanto ci scappa una rimpatriata, come l’amichevole disputata mercoledì sera all’aperto al parco Tsamajdan, nel cuore della capitale serba, ha dimostrato: 8.000 cuori grobari pronti ad applaudire i protagonisti di allora, godendosi anche un assaggio di stagione con i beniamini di oggi, con gli attesi debutto di Frank Kaminsky e PJ Dozier con la maglia bianconera.
Poco ha importato il 93-63 finale (del resto la differenza tecnica tra le due compagini è abissale): c’era voglia di spolverare il libro dei ricordi e tornare a farli vivere, come in quelle magiche notti europee del 1991-92. Quando Obradovic era ancora alle prime armi, ma sapeva già perfettamente cosa avrebbe potuto dare a se stesso e al mondo della pallacanestro in quelli a seguire. Dopotutto, una squadra campione d’Europa appartenente allo stesso tempo a due nazioni differenti era, è e rimarrà per sempre un unicum.