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Roberto Mancini lascia l’Italia da uomo libero. E non fingiamo di accorgerci dell'Arabia solo ora

Restano sconosciuti i motivi personali che hanno portato l'ex Ct lontano dalla panchina della Nazionale. Innumerevoli le critiche per la scelta. Eppure è nel pieno delle sue facoltà (e non lascia debiti)

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Auden Bavaro

Auden Bavaro

Giornalista

Lo sporco lavoro del coordinamento: qualcuno lo deve pur fare. Eppure, quando ha modo di pigiare le dita sulla tastiera, restituisce storie e racconti di sport che valgono il biglietto

Roberto Mancini porterà la croce almeno fino a quando non si sapranno con certezza i motivi che lo hanno spinto a dimettersi da Ct della nazionale italiana. Gli si contestano i modi: una freddissima pec in una sera di metà agosto, in piene vacanze. In mezzo al relax. Proprio quando non avvertiamo la necessità dei colpi di scena.

Invece, stavolta, il colpo di teatro è arrivato: improvvisamente l’ex bad boy, poi redento da opinione pubblica e tifosi, è tornato a essere quello dal “colpo di testa” facile.

Inutile fare l’esegesi dei pensieri e dei gesti di Mancini: le motivazioni che hanno portato al passo indietro possono essere molteplici e, da buona prassi, sarebbe cosa doverosa e giusta ascoltarle dal diretto interessato prima di innescare ogni miccia.

Da plenipotenziario a dimissionario

Di certo c’è che tempi e modi sottendono una decisione tanto convinta quanto improvvisa. Anche perché è di pochi giorni fa una investitura all’ex commissario tecnico – quella, sì, priva di comprensione: vedremo perché – da parte della Figc: pieni poteri e la longa manus in tutti i settori calcistici nazionali. Mancini uomo solo al comando.

L’abbiamo letta così: Mancio plenipotenziario, coordinatore di tutto il movimento, ivi inclusa Under 21, Under 20, settore giovanile. Anche per questo, a distanza di centinaia di ore, la giravolta del marchigiano suona tanto spiazzante quanto radicale.

Divergenze con la Figc?

Tutto, insomma, lascia presagire che dietro alla presa di posizione irreversibile vi siano linee di pensiero divergenti che hanno portato la Federazione da una parte e Mancio dall’altra.

Pare la tipica reazione – se non a caldo – ancora tiepida e sembra includere fatti che adesso non conosciamo. Presto, troppo presto per farsi un’opinione.

Il comunicato è scarno: si parla di scelta personale, ci sono dentro i ringraziamenti – solita roba di facciata? Non credo proprio – alla Federazione e c’è un abbraccio virtuale – onesto, sentito – al popolo della nazionale.

Contano solo i milioni dell’Arabia

Mancio porterà la croce perché – dicono – un Paese e la sua nazionale non si possono trattare così. Perché – dicono – è diventato un calcio privo di sentimento e riconoscenza, in cui contano solo i milioni sonanti dell’Arabia (da più parti si dice che per Mancini sarebbe pronto un contratto faraonico per mettersi alla guida della nazionale araba).

Il paradosso è che su quelle casseforti piene di denaro, ci si fanno – tutti i giorni – i paginoni, si scrivono migliaia di battute. Due mesi di calciomercato fanno gola a tanti: diventano la notizia anche quando notizia non c’è.

Sul carro di Mancini sono rimasti in pochi

Sui carri si sale e si scende, è sempre stato così. Di fianco a Mancini, adesso, c’è rimasta poca gente. Il dito puntato contro l’ex Ct è diventato esercizio stiloso e stilistico: non si fa, dicono. Non si tradisce, dicono. Non si abbandona, dicono.

Non ci si lascia abbagliare dall’oro saudita se il prezzo da pagare è quello di fare scacco matto a tutto un Paese che si regge sul calcio.

Assurdo che nessuno si sia indignato prima, giusto qualche mese fa, proprio mentre l’Arabia ha cominciato a sgonfiare la passione e palesare un dato di fatto che era già evidente, ma un po’ meno di così: i club sono aziende, ragionano sui profitti, ma anche i calciatori sono diventati aziende. Ragionano sugli stessi profitti.

Dalla parte dei tifosi

Mi chiedo per quale motivo uno dovrebbe fare il tifo per un’azienda; mi chiedo per quale motivo uno dovrebbe sacrificare il 10% di uno stipendio che non arriva ai mille cinquecento euro al mese – e parte di un tempo preziosissimo che è irreversibile, non torna indietro – per reggere i destini di una multinazionale che alimenta e sostiene i fabbisogni di pochi, pur reggendosi sulle spalle di tantissimi.

Si cominci da qui, se si vuole fare le battaglie sull’etica e sulla morale in un Paese, peraltro, in cui si fatica a trovare una posizione comune sul sacrosanto diritto di un salario minimo garantito.

Perché Mancini diventa l’unico bersaglio di un sistema impazzito che, finora, non ha scandalizzato nessuno? Solo adesso ci si accorge del metodo, della prospettiva, dell’imbuto.

Non si dimentichi che anche i sistemi economici – peraltro i più virtuosi – si reggono sull’etica. La verità vera? Solo ai tifosi si chiede di restare la versione fedele di una poetica calcistica che diventa sublimazione quando lo stadio si colora, le coreografie si compongono, i cori riecheggiano, le trasferte sembrano partite giocate in casa per quanta gente si mobilita. La verità? Messa così, è una richiesta un po’ paracula.

Cosa dicono i calciatori e cosa dicono gli ex

Mai sentito finora un calciatore, un addetto ai lavori, un professionista nel fiore della carriera lamentarsi del fatto che l’Arabia sta svuotando il calcio: e di valore e di significato.

Mai sentito nessuno di loro frignare perché il gioco più popolare del mondo sta diventando soprattutto show-biz: lo dicono, semmai, alcuni ex calciatori, gli ex allenatori, qualche commentatore. Insomma, lo dicono coloro che non hanno più interesse.

Lo dicono quelli che – a carriera conclusa – non possono più ambire a strappare quel contratto lì: da palanche su palanche, su palanche.

Va tutto bene ma Mancini no

Tutto ciò sta bene, ma Mancini no. Perché – qualora fosse vera l’indiscrezione che rimbalza da qualche parte e che lo proietta a diventare un Paperone d’Arabia – avrebbe mancato di rispetto a un Paese intero! Assurdo.

Per quanto suoni strano, l’Italia non è una repubblica democratica basata sul calcio. C’è parecchio altro, per fortuna. Resta nella legittimità di Mancini assumere – per se stesso – tutte le decisioni lecite, possibili e immaginabili rispetto alla sua vita personale e professionale. Anche perché Mancio se ne va senza lasciare debiti di alcun tipo.

Un ciclo già finito

Detto ciò, all’Arabia non credo ma non mi stupirebbe. Sarebbe, per Mancini, la maniera per silenziare una carriera – quella da allenatore – che è nell’apice del suo corso.

Tanti soldi valgono la rinuncia a stimoli e ambizioni? Per alcuni sì, legittimamente. Per altri no, altrettanto legittimamente.

Mi pare invece oggettivo dire che il ciclo di Mancini fosse già finito. Questo sì. E, anziché leggerci mancanza di rispetto ora, per un addio inatteso, ci ho visto semmai un forte legame quando – a fine Europeo, a Mondiale disatteso, alla morte di Vialli – Mancio ha cercato di proseguire. Di compattare e ricostruire, di ricominciare dall’anno zero. Quando i cicli finiscono, spesso ce ne accorgiamo ma non interveniamo. Si prova ad andare avanti con le migliori intenzioni. Il problema è che, a quel punto lì, non bastano più.

Il senso della progettualità

Se vengono a mancare le premesse, la squadra, i collaboratori, la sinergia non è più uguale. E anche la scelta – quella della Figc – di una investitura totale al Mancio, per quanto sintomatica di una stima incondizionata (e di mancanza di alternative?) e di una progettualità che provasse a fare quadrato, restava un punto interrogativo.

Ci siamo abituati ad attendere il Messia, il salvatore della patria: ma è il calcio stesso a dire che si vince di squadra, mai solo grazie al singolo. Mancini, fino a ieri, godeva di un supporto trasversale: ed era un affetto restituito soprattutto dalla gente. Mancini, fino a ieri, è stato anche la cartina di tornasole: per nascondere le lacune del movimento. Per tenere a bada le critiche rispetto ai risultati. Per lasciare che la delusione sbollisse.

Serve coraggio quando si lascia. Serve coraggio quando si riparte

Forse capiremo tra qualche tempo, forse no: certe cose succedono e le si dimentica lì per quieto vivere. Serve del coraggio quando si lascia. Serve del coraggio quando si riparte.

Quel che farà Mancini è affar suo, quel che farà la Federazione no. È dalla Figc che si attende, ora, una reazione pronta, coesa, lungimirante: arriverà Spalletti, arriverà Conte, arriverà un giovane.

Sono al vaglio figure di esperienza e di prospettiva: in alcuni casi si tratta di qualcuno che ha giù dimostrato, in altri no. Fosse l’una o l’altra opzione, non sarebbe uguale ma, in ogni caso, nessuna delle due strade – da sola – porterebbe qualcosa di buono senza un necessario ricompattamento, fermo restando che la chiusura di un ciclo è prassi – a volte buona abitudine – che non vale solo per gli allenatori. Vale per tutti.

A me Mancini è sempre piaciuto

La chiosa è d’obbligo: a me, Mancini è sempre piaciuto. Da calciatore, poi: genio e sregolatezza che combinava talento e istinto. Aveva l’anima, Mancio: giocava di pancia e di cuore.

Ha traslato tutto anche nella sua esperienza da allenatore: andando a vincere lontano da casa quando nessuno ci andava e nessuno vinceva. Le sue sfide sono sempre state intense, vissute, piene e totalizzanti. Vede dove altri non vedono, arriva dove in genere si arriva dopo, ha investito sui giovani. Lui come pochi altri. Mai troppe parole, negli ultimi anni è diventato anche misurato, pacato, riflessivo.

Gli ho sempre riconosciuto intelligenza: nel senso dell’etimo, uno sveglio, vivace di pensiero. Uno che ci arriva, che capisce, elabora. È stato, il suo, un percorso di crescita evidente compiuto senza rinunciare all’essenza. Cambiando gli atteggiamenti, il modo di rapportarsi è rimasto fedele alla linea. A se stesso.

Gli amici di una vita

Rispetto a tanti altri, restituisce la sensazione di non aver smesso di coltivare i suoi sogni: c’è un modo tutto suo di fare le cose e affrontare le avventure che mi coinvolge. Trascinarsi gli amici di una vita nelle esperienze professionali, per esempio. Avere la capacità di motivare, per esempio. Crederci, per esempio: e non è poco.

Chi l’ha vissuta da spettatore, non può dimenticare la cavalcata della Sampdoria verso uno scudetto che è entrato di diritto nella storia del calcio come una delle pagine più belle mai vissute. Chi l’ha vissuta, non può dimenticare la vittoria di un Europeo in cui eravamo destinati a fare la comparsata e nel corso del quale la differenza l’ha fatta il gruppo allestito dall’ex Ct.

Gianluca Vialli capo delegazione, Gabriele Oriali team manager; gli assistenti: Alberico Evani, Attilio Lombardo, Giulio Nuciari, Fausto Salsano e Daniele De Rossi.

Un sogno che resta vivo

Molti di questi uomini sono il filo conduttore tra un passato remoto e un passato prossimo. Sono la linea di continuità di una storia che è anche quella di un’amicizia duratura. Perché le sfide si affrontano soprattutto così: insieme.

E nulla può, allo stato attuale, distogliere dal fatto che parte di queste figure potrebbero essere anche direttamente interessate alla nascita dell’ennesima avventura che ricominci dove tutto è nato. Quella di restituire alla Sampdoria un corso nuovo, un futuro di gloria.

È parte del sogno che Mancini non ha mai taciuto: ci entra di diritto anche Gianluca Vialli che da quel sogno condiviso – nonostante tutto – non è mai sparito perché lo tengono in vita gli amici.

Non dipendono da Mancini i destini del Paese (né del calcio italiano)

Porterà la croce per un po’, Roberto Mancini: dai carri si sale e si scende. Forse il perché – o i perché – delle dimissioni li capiremo tra qualche tempo. O forse no: certe cose succedono e le si dimentica lì per quieto vivere.

Fatto sta che l’ex Ct è libero di fare quel che gli pare. Non dipendono da Mancini i destini del Paese né da Mancio dipendono i destini del calcio italiano. Solo il suo, quello sì.

E ci faccia ciò che meglio crede. I cicli finiscono per natura: qualcuno lo capisce e si attrezza, qualcun altro lo capisce tardi e prova a rimediare, altri non lo capiscono nemmeno se ci picchiano la testa e, forse forse, qualcuno finge di non capirlo. E restano, questi ultimi, quelli di cui diffidare davvero.

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