Ogni serie di finale che si rispetti ha il suo uomo chiave, quello dal quale ti potresti aspettare un apporto minimo, ma che in barba a qualsiasi previsione riesce a penetrare nei meandri delle partite come un vero e proprio Arsenio Lupin. Uno come Alex Caruso, tanto per capirci: di italiano ha il cognome e poco altro, nel senso che forse nel paese dei suoi avi non c’ha mai messo piede, ma sul parquet del Paycom Center di Oklahoma City la differenza l’ha fatta eccome in una gara 2 che è sembrata voler “restaurare” le convinzioni della vigilia. E cioè che i Thunder, se vogliono, questi Pacers potrebbero mangiarseli comodamente per colazione.
- Ecco i veri Thunder: Indiana "tradita" dalla panchina
- Alex Caruso è uno che ce l'ha fatta (e da un bel po')
- La nuova veste di Caruso: da attaccante è ancora più decisivo
Ecco i veri Thunder: Indiana “tradita” dalla panchina
L’1-1 nella serie non ha sorpreso nessuno, nei modi così come nelle proporzioni. Il 123-107 finale ha ribadito la superiorità globale dei Thunder, che dopo la “sveglia” ricevuta sulla sirena in gara 1 hanno capito che contro questa versione di Indiana è bene non scherzare. Stavolta però coach Daigneault aveva catechizzato a dovere i propri ragazzi: Holmgren molto più dentro la partita è stata la prima chiave per scardinare le solide certezze acquisite dai Pacers, che pur mandando ben 7 uomini in doppia cifra non sono mai riusciti a trovare la chiave per accendersi, un po’ come tante voglie gli è capitato di fare nel corso della run play-off.
E dire che all’inizio del quarto periodo il punteggio era simile a quello di gara 1, con i Thunder avanti di una quindicina di punti. Stavolta però, nessuna rimonta: Gilgeous-Alexander ha continuato a fare sfracelli in attacco (34 punti dopo i 38 di gara 1: con 72 punti ha superato Allen Iverson in fatto di punti realizzati nelle prime due gare di una serie di finale da un debuttante assoluto alle Finals), Wiggins dalla panchina ha trovato canestri pesanti e OKC s’è tenuta al riparo dai guai. Anche perché nel frattempo c’aveva pensato un italo-americano a spingerla avanti.
Alex Caruso è uno che ce l’ha fatta (e da un bel po’)
Alex Caruso non è mai stato un “figlio prediletto” dell’NBA. Quando nel 2016 si presentò al Draft, appena 22enne, nessuna squadra se lo filò di striscio. Forse perché vedeva in quel fisico un po’ mingherlino un potenziale bust in un mondo dove essere piccoli senza essere veri realizzatori rappresentava un limite, specie di tenuta difensiva.
A Caruso, insomma, nessuno ha mai regalato niente. Neppure OKC, che nel 2016 lo mise sotto contratto, ma per spedirlo a giocare nella squadra di sviluppo in G-League. Un anno dopo, la prima vera opportunità: i Lakers lo portano alla Summer League, poi lo firmano con un two-way contract, così da consentirgli di giocare sia in NBA che nella lega di sviluppo. E un po’ a sorpresa a Los Angeles, dove l’anno dopo sbarca LeBron James, lo spazio si allarga: Caruso nel 2019 è ormai una pedina chiave nelle rotazioni, persino titolare nella decisiva gara 6 delle Finals 2020, quelle giocate nella “bolla” di Orlando, vinte dai Lakers sugli Heat per 4-2.
Il mondo capisce che Caruso è uno che ce l’ha fatta e lui, come logica vuole, capisce che è tempo di andare a monetizzare: Los Angeles non lo rifirma, i Bulls gli offrono 37 milioni per 4 anni e lui accetta. Non lotta più per l’anello, ma sa sempre come farsi apprezzare. E soprattutto di lui si ricorda Sam Presti, che ai Thunder lo vedrebbe bene per completare la catena che a suon di picks è andato realizzando. Manda a Chicago Giddey e lo riporta a OKC, e la mossa è vincente.
La nuova veste di Caruso: da attaccante è ancora più decisivo
Perché Caruso diventa più di un semplice uomo dalla panchina nella miglior squadra della lega. La sua utilità in difesa era ben nota a tutti, ma adesso è in attacco che Alex ha cominciato a pagare dividendi: i 20 punti segnati in gara 2 ne sono la riprova, col Paycom Center letteralmente scatenato ogni volta che l’italo-americano fa muovere la retina. Se Indiana non troverà un modo per rendergli la vita dura in difesa, ecco che rischierà di ritrovarselo sempre più spesso libero di colpire nella propria metà campo.
Caruso, vale la pena ricordarlo, è stato il giocatore che ha contribuito più di ogni altro a fermare Nikola Jokic nella decisiva gara 7 del secondo turno, sebbene il serbo sia alto 20 centimetri più di lui (Daigneault gliel’ha francobollato addosso lo stesso… e con profitto).
Stanotte però è stato decisivo in attacco, e questa è una notizia che a Carlisle non potrà mai far piacere. Perché OKC aveva tante armi prima, e ne ha ancora di più adesso. Se Haliburton non torna ad accendersi, stavolta per i Pacers la via che conduce a un’altra impresa rischia di rivelarsi troppo impervia.