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Che fine ha fatto Zavarov, zar triste di tutta un’altra Juve

Il russo non riuscì mai ad ambientarsi in bianconero

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Che fine ha fatto Zavarov, zar triste di tutta un’altra Juve Fonte: Eugenio Maritozzi

In quegli anni lì erano di moda i calciatori russi. La nazionale del colonnello Lobanowsky aveva incantato tutti ai Mondiali in Messico e il nome di Olexsandr Zavarov era uno di quelli che piaceva a tutti. E piaceva anche alla Juventus che lo acquistò nell’88, alla vana ricerca di un vero erede di Platini dopo il fallimento di Magrin. Arriva a Torino con l’etichetta di pseudo-intellettuale, di lui si sa che legge di tutto, dalla fantascienza ai classici, dai gialli ai saggi, ascolta tutti i tipi di musica (“Mi piace anche la classica, ma non sono un intenditore. E’ un ascolto difficile, e io sono solo un dilettante”), ama giocare a scacchi oltre che a calcio. Figlio di operai, ha due fratelli, uno anch’egli operaio e l’altro conducente d’autobus, lui invece aveva scelto il pallone ma non riuscì ad arricchirsi. Lo stipendio degli Agnelli veniva girato al partito comunista sovietico che poi passava due milioni (di lire) al mese al giocatore. Una cifra impensabile anche allora per un calciatore. Aveva dei buoni spesa per i supermercati e girava per Torino con una Duna. Una debolezza però Sasha ce l’aveva: l’alcool.

CHE LINGUA PARLI? – «Vedevi girare queste bottiglie di vino, non si sa uscite da dove – ha ricordato il suo ex compagno Pasquale Bruno, ritenuto ancora uno dei calciatori più cattivi di sempre – negli autobus che ci riportavano dalle trasferte vicine. Puntualmente finivano in fondo, dove guarda caso c’erano sempre lui e Laudrup». I veri problemi erano altri: il primo è che quella Juve era solo lontana parente da quella che oggi domina, il secondo è che Zavarov non parlava una parola d’italiano. Conosceva un po’ di inglese e stop, girava sempre col traduttore. E la barriere linguistiche, oltre al difficile adattamento a ovest, per uno che veniva dal blocco comunista, furono forse il più grande ostacolo al suo inserimento nel calcio italiano. In bianconero realizzò solo sette gol in sessanta partite di campionato e anche quando decise di indossare la maglia numero 9, perché la 10 era troppo pesante, non dimostrò di avere la marcia in più. Finì in Francia, curiosamente al Nancy – la squadra con cui esordì Platini.

GUERRA E PACE – Poi chiuse con il Saint-Dizer, con cui iniziò la sua carriera da allenatore che ha sviluppato in seguito tra Svizzera, Kazakhistan e Ucraina. Attualmente è il vice-allenatore della nazionale ucraina. Qualche anno fa è tornato agli onori delle cronache perché pubblicamente ha dichiarato che non avrebbe combattuto la guerra dell’Ucraina contro la Russia: “Non combatterò mai il paese dove vive la mia famiglia, dove vivono i miei figli e dove sono seppelliti i miei avi. Voglio la pace”. Zavarov, come tutti i coscritti tra i 25 e i 60 anni, era stato chiamato alle armi lo scorso febbraio. Ma la sua parola d’ordine, anche quand’era calciatore, era una sola: MIR, cioè Pace.

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