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Sinner, Moraschini: mio caso identico ma io fui squalificato e lui no, perchè?

Il cestista ricorda la sua vicenda ed attacca la soggettività del sistema antidoping dopo la vicenda Clostebol che ha visto l'assoluzione di Jannik

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Fabrizio Piccolo

Fabrizio Piccolo

Giornalista

Nella sua carriera ha seguito numerose manifestazioni sportive e collaborato con agenzie e testate. Esperienza, competenza, conoscenza e memoria storica. Si occupa prevalentemente di calcio

Era il 6 ottobre 2021 quando il cestista Riccardo Moraschini venne sottoposto ad un controllo antidoping, la sua positività al Clostebol venne comunicata il 21. Il giocatore rinunciò alle controanalisi per non perdere tempo, avendo ben chiare le cause. Venne subito fermato. Verrà ascoltato solo in dicembre, e condannato poco dopo Capodanno con un anno di squalifica. Una vicenda uguale e diversa a quella che ha visto coinvolto Sinner.

La squalifica di Moraschini

L’appello viene fissato al 18 febbraio, il TNA non reputa l’atto del giocatore teso ad alterare le prestazioni sportive, ma la squalifica è confermata perché Moraschini avrebbe presentato ricorso alla sezione sbagliata. Ma su indicazione dello stesso TNA. Come era avvenuta la contaminazione? Spiega tutto il giocatore. La sua compagna si ferisce in cucina e utilizza uno spray cicatrizzante contenente Clostebol. Secondo Riccardo Moraschini, nel suo corpo ci sarebbero stati 0.5 nanogrammi di Clostebol, la stessa sostanza trovata nelle analisi di Sinner. Moraschini oggi racconta tutto a La Repubblica.

Lo sfogo di Moraschini

Dice la guardia di Cantù: “Quando ho sentito di Sinner mi è venuto da ridere. Un sorriso amaro. Il nostro caso è identico, spiccicato: quantitativo bassissimo, ricondotto solo a contaminazione esterna. Entrambi siamo stati riconosciuti non consapevoli che una persona vicina a noi usava il farmaco vietato, preso in farmacia, nel mio caso la mia ragazza. Ma io ho pagato con un anno di squalifica e la sospensione. Ero ad allenarmi, mi ha scritto la mia ragazza perché aveva letto la notizia. Era furiosa. Io ho letto, ho guardato rapidamente anzi. Mi è venuto da ridere: ma già sapevo quanto fosse sbagliato questo sistema che mi ha rovinato la carriera, economicamente e sportivamente: quando mi hanno trovato positivo giocavo nella squadra più importante d’Italia e nella lega più importante d’Europa”.

La spiegazione del cestista

Moraschini continua: “L’antidoping ha un sistema giustamente ferreo. Poi però ogni singolo caso viene trattato con la soggettività di chi lo giudica. Io sono stato sospeso tre mesi e mezzo in attesa del giudizio. Ma lo sport è uno solo, i regolamenti legati al doping non possono essere trattati differentemente a seconda dei casi e dello sport. I precedenti servono: Simona Halep, ex numero uno mondiale, fu trovata positiva e sospesa subito fino alla data dell’udienza. Perché io perdo tre mesi e mezzo di stagione e lui no? In quel mondo sono stato per un anno, quello della mia squalifica. Un anno in cui ho sentito cose assurde: ho visto che in un tribunale antidoping i precedenti non esistono. Che un atleta deve sapere cosa usa chi è vicino a lui. Ma noi atleti vediamo ed entriamo in contatto con migliaia di persone che hanno vite fuori dal nostro lavoro e che noi non possiamo controllare. Ho scoperto che la cannabis, che tutti sanno essere vietata, ti costa una squalifica minore rispetto a una pomata assunta per contaminazione”.

Quando gli chiedono se sarebbe giusto inserire una soglia di tolleranza per il Clostebol, infine, risponde così: “Non lo so, non so se sia la cosa giusta. Ma se la quantità è così bassa che non altera in nessun modo la prestazione, e in più è assunta attraverso una terza persona, stiamo parlando di nulla. Non di doping”.

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