“Watter kant?”, si sente domandare Bongi Mbonambi. Ha l’ovale in mano, pronto a lanciarlo dalla touche per rimetterlo in gioco. Ma perché mai dovrebbe sentire quelle parole che non dicono nulla di sensato? In lingua afrikaans, “watter kant” significa “quale lato”.
E la domanda che viene rivolta al tallonatore sudafricano ha un significato ben preciso:
Da quale lato del campo lancerai l’ovale?
Quella frase, pronunciata anche durante una delle tante rimesse laterali di cui Mbonambi s’è preso cura durante la semifinale contro l’Inghilterra, è quella incriminata che per poco non è costata al giocatore degli Springboks la possibilità di disputare la finalissima della Webb Ellis Cup di sabato 28 ottobre a St. Denis contro gli All Blacks.
Quella frase che il flanker inglese Tom Curry, non nuovo a scambi dialettici con Mbonambi, ha interpretato come un insulto razzista, pensando che le parole uscita dalla bocca del giocatore sudafricano fossero “white cunt”, ovvero “f..a bianca”.
Episodio che ha distolto per buone 48 ore e più l’attenzione dei media di tutto il mondo durante la marcia d’avvicinamento alla finale, con gli Springboks che hanno temuto di perdere il tallonatore se la federazione inglese avesse presentato un reclamo a World Rugby, segnalando il presunto razzista.
Reclamo che andava fatto entro 36 ore dalla fine della partita, ma che non è mai stato fatto, così come la federazione internazionale ha ritenuto di non dover andare oltre con un’indagine indipendente (era nelle sue facoltà). E durante una delle ultime sedute d’allenamento del Sudafrica, un audio ha svelato quello che, stando alla ricostruzione dei giornalisti locali, sarebbe stato l’arcano: Mbongi e i compagni parlavano in afrikaans, forse per non far cogliere ai rivali il significato delle loro parole. Verità o no, la pietra sopra c’è stata messa. Se poi la toppa è peggio della buco, ognuno saprò farsene una ragione.
- Nuova Zelanda-Sudafrica, sfida totale
- Springboks, o la va o la spacca
- All Blacks, la magìa è tornata
- Pumas-Inghilterra per il bronzo
Nuova Zelanda-Sudafrica, sfida totale
Mbonambi domani sera sarà regolarmente in campo nella partita che mette in palio quella che sia per il Sudafrica che per la Nuova Zelanda potrebbe diventare la quarta Weeb Ellis Cup di cui fare bella mostra nella vetrina di casa. Sfida totale tra due scuole che hanno saputo resistere meglio di qualunque altro movimento ai cambiamenti epocali che hanno investito il mondo della palla ovale. A distanza di 28 anni dallo scontro del 1995, vinto (non senza polemiche) dagli Springboks in una Johannesburg appena uscita dall’apartheid, le due superpotenze si sfidano per la supremazia definitiva.
E dire che due mesi fa, a Twickenham, nell’ultimo test match prima del via del mondiale, non ci fu davvero partita: i sudafricani inflissero quel giorno la peggiore sconfitta di sempre alla nazionale neozelandese, battuta 35-7 e considerata già prima di cominciare a giocare come una delle grandi delusioni della rassegna francese, tesi peraltro avvalorata dal ko. all’esordio contro i padroni di casa della Francia nel match inaugurale.
Ma da allora, seppur sono trascorse poche settimane, il mondo s’è capovolto: gli All Blacks sono tornati a dispensare rugby celestiale, asfaltando Namibia, Italia (ahi noi) e Uruguay, per poi piegare la resistenza dell’Irlanda, grande favorita per la vittoria finale, e regolare in meno di un tempo la pratica Argentina in semifinale. Arrivano tirati a lucido, con una squadra che gioca a memoria e con una convinzione nei propri mezzi che somiglia a quella di altre versioni ingiocabili, vedi quella del 2015.
Al contrario gli Springboks, benché abbiano dovuto affrontare ostacoli ben maggiori (oltre a Scozia e Irlanda nel girone, chiuso al secondo posto per via del ko contro quest’ultima in una gara segnata da tanti calci sbagliati, hanno dovuto superare prima la Francia e poi l’Inghilterra), arrivano all’atto conclusivo con qualche certezza in meno e con la sensazione di aver già dato tanto, chiedendo forse anche troppo a se stessi. Sebbene siano loro la vera nemesi degli All Blacks, battuti 39 volte in 105 precedenti, la percentuale più alta tra tutte le rivali che li hanno affrontati nella storia.
Springboks, o la va o la spacca
La strana coppia Nienaber-Erasmus ha deciso di andare all in una volta per tutte. Decidendo di schierare una squadra d’assalto, disposta davvero a giocarsela su ogni punto d’incontro. Il concetto di “bomb squad” stavolta è stato moltiplicato alla massima potenza: addirittura in panchina i sudafricani porteranno sette avanti e un solo trequarti, segno che l’idea del coaching staff è di andare veramente alla guerra e di dare battaglia su ogni break down.
Una sfida totale alla quale però non possono venir meno due pedine che spesso e volentieri hanno risolto grane nell’ultima mezzora, ma che stavolta saranno chiamati a farlo dall’inizio: la coppia di mediani composta da Fef de Clerk e Handré Pollard giocherà insieme per la 25esima volta in una gara ufficiale, record all time per gli Springboks (quando si dice: l’usato sicuro). Per il resto giocano gli stessi del XV ammirato contro l’Inghilterra, con i veterani Etzebeth, Kolisi, Kitshoff, de Allende, du Toit, Vermeulen, Mostert e Mbonambi desiderosi di concedere il bis quattro anni dopo il trionfo di Yokohama. Anche se poi la pedina chiave potrebbe essere ancora una volta Kolbe, spesso decisivo quando si aprono varchi per correre.
All Blacks, la magìa è tornata
Ian Foster, che fino a poche settimane fa era l’uomo più odiato di tutta la Nuova Zelanda (dura fare il commissario tecnico da quelle parti: un anno ne vale dieci a livello di stress psicofisico…), è a 80’ dalla più dolce delle rivincite. Anche se a lui di far ricredere i suoi connazionali importa relativamente: a fine Coppa del Mondo lascerà vacante la sua sedia, e dovesse farlo dopo aver riportato a Auckland la quarta Webb Ellis Cup renderebbe infuocata quella seduta al suo successore. Foster ha tirato sempre dritto, anche quando i conti non tornavano.
Ma ha trovato la quadra attorno a una formazione che è un bel mix di gioventù ed esperienza, tanto che sorprende vedere uno come Damian McKenzie confinato in panchina per più di metà partita (probabilmente sarebbe titolare inamovibile in tutte le restanti 19 partecipanti alla rassegna). Al solito c’è un solo cambio da fare rispetto alla precedente sfida: è la consolidata staffetta tra Brodie Retallick e Sam Whitelock, con quest’ultimo che partirà dalla panchina per trovare spazio poi a gara in corso. E considerando che il Sudafrica tende a tenere altissimi i ritmi di gioco anche (se non più) nella ripresa, non necessariamente la cosa deve essere vista come un male.
Aaron Smith, all’ultima gara con gli All Blacks, vuole salutare alzando la coppa più prestigiosa, come già fatto da Dan Carter nel 2011 e da Richie McCaw nel 2015 (entrambi saranno in tribuna a sospirare per le nuove leve). Will Jordan va a caccia della nona meta nel mondiale che lo proietterebbe nella leggenda, unico giocatore a segnare nove volte in una singola edizione (per ora è a quota otto come Lomu, Habana e Julian Savea: mica male, la compagnia). Nella storia vogliono entrarci anche i fratelli Barrett, tutti e tre titolari (Beauden, Jordie e Scott), ma soprattutto Ardie Savea, probabilmente il giocatore più temuto dagli Springboks per quanto fatto vedere nelle precedenti gare (e con lui Rieko Ioane e Mark Telea).
Pumas-Inghilterra per il bronzo
L’antipasto della finale va in scena venerdì sera, sempre a St. Denis, con la finalina tra Pumas e Inghilterra che vale il terzo posto. Senza voler scomodare la battaglia delle Falkland, tenuto conto che questa è una rivalità abbastanza recente nel mondo del rugby (quattro precedenti, tutti appannaggio degli inglesi), il match ha comunque un valore di tutto rispetto: l’Argentina ha chiuso terza già nel 2007, sempre in Francia, e dopo quell’exploit il rugby è cresciuto parecchio sia come praticanti, sia come livello generale. Michael Cheika le ha dato una nuova identità e conquistare il bronzo mondiale renderebbe ancor più lodevole il lavoro svolto, confermando la presenza pressoché fissa nell’elite del Tier 1.
L’Inghilterra, che un anno fa era senza allenatore dopo le dimissioni di Eddie Jones, ha trovato in Steve Borthwick qualcosa in più di un semplice traghettatore: il XV della Rosa non veniva considerato in grado di poter fare strada nella Coppa del Mondo, complici i deludenti risultati degli ultimi mesi, ma con astuzia e grande resilienza ha saputo smentire gli scettici, arrivando a 2’ dalla finale dopo aver fatto vedere i sorci verdi ai sudafricani. Per loro, però, arrivare terzi o quarti fa poca differenza: ben otto cambi di formazione, rispetto ai tre effettuati dai Pumas, che di solito quando affrontano l’Inghilterra trovano sempre risorse inaspettate. Che poi sono stati proprio loro a esportare il rugby in Sudamerica…