Carlos Alcaraz si sbarazza di Matteo Berrettini, non del suo sogno: Martello saluta l’edizione 2023 di Wimbledon tra gli applausi ed esce di scena agli ottavi di finale per un dispetto del tabellone che, nel bel mezzo di un ritorno trionfale – sta bene Martello, sta alla grande: felicitazioni – gli mette di fronte il Mostro. Finisce 3-1: 3-6, 6-3, 6-3, 6-3.
Finisce secondo pronostico: abbraccio finale e onore delle armi: la strada di Carlos verso lo Slam è spianata e, se la scienza applicata al tennis vale ancora qualcosa, non può essere un quarto di finale contro Rune a mettersi di traverso. Lato nostro: Matteo è tornato. Concetto più che mai valido: lo dicono i numeri e lo dice pure quello che ci sta oltre (i numeri, certe sensazioni, non le trasferiscono fino in fondo).
- Quando Matteo era già lui e Carlos ancora nessuno
- L'epica, Mostro, Martello, Maria e Melissa
- Il primo set, 43' di goduria
- Il secondo set: Carlos, quello vero
- Il terzo set, quando capisci perché lo chiamano Mostro
- Il quarto set, quello che significa un sacco di cose
- Djoko, paura e sollievo: ora Rublev
- Eubanks, signori, e vengo da lontano
Quando Matteo era già lui e Carlos ancora nessuno
C’è stato un momento, qualche anno fa, in cui Matteo Berrettini era già Berrettini mentre Carlos Alcaraz non era ancora nessuno. Giusto un bimbo che sognava il grande tennis e si abbeverava dall’idolo di sempre, Rafa Nadal. Dicono, adesso, ne sia il più diretto discendente. Spagnolo, come Rafa, i bicipiti di marmo, come lo spagnolo più illustre e una predisposizione alla racchetta pressoché innata. E Wimbledon 2023, tra qualche dejavù, si inserisce nella storia come una letteratura odeporica.
L’epica, Mostro, Martello, Maria e Melissa
Il senso del viaggio di questi ultimi tempi è lo stesso di un mondo che è andato a rovescio: Matteo sa cosa voglio dire perché lui rovescia, rovescia il mondo a colpi di bordate. Diceva McEnroe, non uno sparring partner ma John McEnroe, che il rovescio per Berrettini è una specie di kryptonite. S’è girato il mondo, a poco a poco, e ce ne siamo accorti: Wimbledon era europea, poi è diventata Brexit. Alcaraz maggiorenne, Berrettini rotto. Carlos numero 1 al mondo, Matteo 38. Mostro invincibile e inscalfibile, Martello fragile e intermittente.
Mostro e Martello in un castello: Centre Court, Londra. C’entra anche l’epica, stavolta. Resta forma d’arte ma ha smesso, in un tardo pomeriggio di metà luglio, di essere letteratura. È diventata genere televisivo. Elena Pero e il commento tecnico di Paolo Bertolucci. Più un quintale di dirette live per starci almeno un po’ dentro. Maria Gonzales Gimenez e Melissa Satta sono parte focale di una storia nella storia: lì a tifare, soffrire, gioire. Le vediamo una volta per scordarcene. Badano benissimo a se stesse.
Il primo set, 43′ di goduria
Quando Alcaraz e Berrettini cominciano a fare a pallate, lo sai già: la pressione ce l’ha Mostro, Martello ha il cuore leggero. I riflettori addosso ce li ha Alcaraz, ma Berrettini a Wimbledon lo amano. La prima di servizio è di Matteo, Carlos riceve: riceve da Dio, manda al diavolo due palle break, poi Martello rimette a posto le cose.
I successivi tre sono turni di battuta veloci, ognuno porta a casa il suo. Alcaraz torna insidioso nel quinto gioco, Berrettini non cede; Carlos fa le prove di forza nel settimo game e Matteo lo prende a pallate nei momenti topici.
L’ottavo game è quello che ti alzi dalla sedia: Martello ha la prima palla per il break ma l’altro lo infila di dritto. A stretto giro arriva la seconda e stavolta Carlos spara il dritto out. La chiamata del challenge conferma: 5-3 Berrettini, poi 6-3. 43′ di assoluta goduria.
Il secondo set: Carlos, quello vero
794 metri corsi dal nostro contro i 765 di Carlos: l’equilibrio è un filo sottile. I numeri cominciano a sbilanciarsi, a partire dai colpi vincenti: 13 Alcaraz, 7 Berrettini. 6 errori non forzati per Matteo che entra bene con la prima di servizio ma Carlos risponde ancora meglio.
Il rammarico di un secondo set che Mostro si va a prendere con l’identico parziale del primo ma ribaltato, lo lascia quel maledetto primo game in cui Martello ha volato sulle ali dell’entusiasmo e sul più bello – palla break sul 30-40 – non ha chiuso.
Alcaraz è un altro rispetto a una decina di minuti prima: cresce di intensità, ha cambio gioco e ritmo, picchia sulla racchetta, va indistintamente con dritto e rovescio, diventa pericoloso anche quando serve Matteo e piazza un diabolico break al quarto gioco che gli permette di blindare il set.
Un paio di occhiate – noi – a Matteo per capire come sta: la paura è sempre quella. Un crik, un crok, un muscolo tirato troppo, un addominale pazzo. Ma no, niente: Berrettini sta bene.
Il terzo set, quando capisci perché lo chiamano Mostro
Prendi il terzo gioco, per esempio. Dopo che i primi due sono filati pari e patta. Serve Matteo, quel satanasso dall’altra parte si porta sul 40-0 senza lasciarti il tempo di capire come e si ritaglia lo spazio di cinque palle break. Cinque.
A furia di vanificargliele, una alla volta, tendi a credere che Martello passi indenne anche questa, invece l’indomito si costruisce anche la sesta. Per dire: Berrettini in partita c’è, eccome. Nono game: in un flirtare di palle break e game point, Mostro tira dritto e fa 2-1.
Il problema è che Alcaraz ormai è arrivato su un altro pianeta, diventato di un altro livello. Sa cosa fare, quando farlo, come farlo. Servizio, risposta, dritto, rovescio: indistintamente, in rima alternata. Così, Mostro, è una poetica di cui non reggi l’urto nemmeno se sei la migliore versione di Berrettini.
Il quarto set, quello che significa un sacco di cose
I cedimenti arrivano in un attimo. Pensiero-azione sono botta e risposta. Date le cause, la conseguenza è il crollo o la reazione. Dipendono solo da lì, un sacco di cose. Ribaltato e sotto di un set, Matteo poteva chiuderla male. Malissimo. Invece no. Resta dentro al gioco.
Quando Alcaraz fa partita da solo, quando il bello e il cattivo tempo lo decide lui, quando si affaccia a rete e finisce quasi in braccio alle prime file per tenere aperto un punto: Matteo resta dentro al gioco.
Quando il tempo comincia a fare le bizze e la partita viene interrotta, il tempo di trasformare l’outdoor in indoor e accendere l’aria condizionata, sul 2-2. Tempo un quarto d’ora e si riprende: Matteo resta dentro al gioco.
L’ottavo game è il momento dell’epilogo scelto da Alcaraz: grande risposta dello spagnolo, Berrettini sbaglia di diritto. Quanto è più forte Carlos lo capirebbe anche uno capitato lì per caso. Si perde anche e soprattutto per questo: esistono gli avversari. Finisce 6-3 anche il quarto set. Game, partita.
Ma è un set che, a modo suo, vuol dire un sacco di cose. La più importante è che il ritorno a grandi livelli di Berrettini inizia da qui. Wimbledon, casa: gli applausi finali per Matteo sono linfa vitale. Che tutto abbia inizio, di nuovo. Forza, Martello!
Djoko, paura e sollievo: ora Rublev
Hubi Hurkacz ha lasciato andare il braccio che è un piacere, ma contro Nole Djokovic anche una prima di servizio con percentuali bulgare (33 ace) può non bastare: ai quarti di Wimbledon avanza il tennista serbo, campione in carica, che rischia qualcosina una volta rimesso piede in campo dopo lo stop arrivato per oscurità nella giornata di domenica, ma che i conti riesce comunque a farli tornare alzando il livello del proprio gioco.
Avanti due set a zero (entrambi vinti al tiebreak) prima dello stop domenicale, Djokovic concede subito 6 punti al rivale polacco in apertura di terzo set, cedendo la battuta nel 12esimo game (Hurkacz s’impone per 7-5) nell’unica occasione in cui concede palle break (la prima annullata, la seconda trasformata in oro colato dal rivale).
Poi però nel quarto set il servizio di Hubi comincia a perdere colpi, e quando Nole ha la possibilità di attaccare non c’è modo di arginarne lo strapotere fisico e mentale. Il break decisivo, l’unico ottenuto dal serbo nell’incontro, arriva al settimo game e consegna all’ex numero uno del mondo l’opportunità di scappare via e dare appuntamento al russo Andrej Rublev nei quarti di finale. Da quella parte del tabellone giocheranno anche Sinner e Safiullin: uno di questi quattro domenica prossima avrà la possibilità di disputare la finale all’All England Club.
Eubanks, signori, e vengo da lontano
Strappare una citazione all’indimenticabile Francesco Nuti per parlare di uno statunitense di 27 anni che, col 43 Atp stampato in graduatoria, prova a giocare conl suo e l’altrui destino. Si dirà che Stefanos Tsitsipas è il solito: crea e distrugge con altrettanta facilità, anzi.
A volte ci mette meno a sbriciolare quel che aveva ammonticchiato con cura e parsimonia. Questione di felling? Mah, piuttosto di testa: è la tenuta che non convince quasi mai, nonostante stia nella rosa dei top 5 al mondo.
Parte bene, il greco: 27’ di ferocia che gli consentono di sfruttare a dovere la prima di servizio e strappare due palle break. Il 6-3 pare dire tutto, invece alla lunga non è rivelatore di nulla di buono.
Eubanks non sbaglia niente nel secondo set: strappa il servizio a Tsitsi all’ottavo gioco del tie break e fa pari e patta. Stefanos il greco è ancora lui nel terzo set, copincolla del primo e percentuali quasi nette al servizio.
Poi tanto buoi, o parecchia luce a seconda dei punti di vista: Cristopher si prende la scena nel momento esatto in cui l’altro ne esce mestamente. Break dello statunitense al nono gioco, 6-4; contraccolpo di Tsitsi che si lascia portare via anche il primo gioco del quinto set e, dopo averlo recuperato al sesto, lo cede nuovamente al gioco successivo. Al quarto di finale Medvedev-Eubanks non ci credeva nessuno (non per l’eventuale assenza del russo, va da sè).