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La lezione di Luis Enrique che va oltre il calcio e Italia-Spagna

La correttezza, i complimenti a Mancini e il sorriso con De Rossi e anche Federico Chiesa: notevoli tratti di un ct e di un uomo unico, Luis Enrique

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In quella grande lezione di calcio che ha saputo essere Italia-Spagna, la prima delle semifinali di questo primo Europeo itinerante e post pandemia, Luis Enrique ha dimostrato quanta importanza ricopra un uomo nel costruire un filo rosso in un undici distante dalla perfezione. Ha individuato soluzioni, ha dominato in termini di possesso palla e passaggi, ha donato prodezze e predicato con un Dani Olmo da seguire per il resto degli anni a venire e non solo per la crescita registrata in una Spagna tutta nuova, in fase di costruzione ma anche solida, divertente, bella (perché no?) da seguire.

L’esperienza di Luis Enrique alla Roma

Non è stato molto amato, ai tempi della Roma, Luis Enrique o forse non è stato capito come è capitato ad altri colleghi che a Trigoria non hanno trovato il modo di mischiarsi con quell’insieme unico, specialissimo e potente che si trova solo nella Capitale sponda giallorossa. L’immagine della memoria di quelle complicate stagioni giallorosse non è sovrapponibile a quella che abbiamo ammirato durante Euro 2020: visibilmente dimagrito, più segnato, eppure più cordiale, più incline a compiere gesti di grande umanità e correttezza esemplare. I sorrisi e i complimenti a Federico Chiesa (un guastatore che piacerà a molti), a Mancini, le dichiarazioni quasi spontanee di sportività dopo la sconfitta. Un esempio di stile, in un calcio e in un’edizione della competizione che non sempre ha brillato per attenzione a temi legati ai diritti civili e al razzismo. Invece, a modo suo, Luis Enrique ha fatto tutto e ha fatto di più, per quanti lo hanno visto.

La perdita della sua Xana: la scelta di Luis Enrique

Non è solo per il modello che ciascun allenatore spagnolo ha davanti a sé, quel Pep Guardiola che ha fatto scuola e non solo in fatto di impostazione, schemi, studio. Con Luis Enrique, su quella panchina, c’è tutta la sua vita, la sua X (quella di Xana, la sua bambina scomparsa a 9 anni per un tumore osseo) tatuata sull’avambraccio e un segno di svolta, di ritorno che vuole imprimere alla nazionale spagnola, nonostante il passato che sarà lì comunque. Su questa panchina, si è voluto sedere anche dopo aver affrontato la prova che nessuno vorrebbe essere costretto a vivere.

La correttezza di Luis Enrique che piace al pubblico

Lucho è un invece. Invece Lucho continua, continua a dedicarsi a questo progetto e a impartire lezioni che non segnano più alcun confine tra vita e calcio.

“Sono felice per quello che ho visto. Ho goduto di una partita di alto livello, con due squadre forti che cercavano di giocare un bel calcio, è stato uno spettacolo per i tifosi. Voglio fare i complimenti all’Italia, spero che in finale possa vincere questo Europeo. Tiferò per gli azzurri”, ha detto.

“L’errore che non dobbiamo commettere – aveva detto alla vigilia – è non essere la Spagna. Poi potremo perdere, vincere o pareggiare, ma so che la mia squadra sarà fedele al nostro spirito”.

Numeri impressionanti, dicevamo (65% a 35%, 833 passaggi completati a 306), costretti a correre tanto, spesso male e invano.

“Gli ho fatto i complimenti — ha ammesso Bonucci— perché da quando c’è Mancini non avevamo mai trovato una squadra che ci mettesse così in difficoltà”.

Luis Enrique ha fatto le sue considerazioni: “Morata in panchina all’inizio? Ho visto Chiellini e Bonucci con Lukaku contro il Belgio e ho pensato che forse sarebbe stato meglio giocarla senza attaccanti. È stata una scelta importante per noi, abbiamo potuto superare il pressing azzurro”.

Luis Enrique la protezione la riserva solo a Alvaro Morata, l’attaccante che più ha sofferto in questa partita ma ha donato un gol da cineteca a chiunque lo abbia visto: “L’ho ringraziato e abbracciato. Ci ha permesso di sognare”. L’ennesima frase inconsueta, per un ct.

L’incontro di Luis Enrique con De Rossi

A proposito di quel folle anno romano, Daniele De Rossi che morbido non è nei giudizi ha desiderato dire che: “Pensammo fosse un matto, ma è l’allenatore che più mi ha cambiato. Se ripenso che lo abbiamo fatto scappare dopo dieci mesi, mi sento male”. Prima della partita si sono abbracciati, sorriso con gli occhi e stretti oltre un gesto simbolico. Perché la verità, quando è autentica, non ha bisogno di molto altro. Il resto rimangono solo commenti.

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