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Il tennis ai piedi di Alcaraz: tanto Nadal, parecchio Djoko, sprazzi di Federer. Ma Carlos è già unico

Lo spagnolo è già diventato merce rara e preziosa: un pezzo unico ai cui piedi s’è chinato l’universo del tennis. Tra paragoni e prospettive, il neo vincitore di Wimbledon ha un futuro spianato

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Auden Bavaro

Auden Bavaro

Giornalista

Lo sporco lavoro del coordinamento: qualcuno lo deve pur fare. Eppure, quando ha modo di pigiare le dita sulla tastiera, restituisce storie e racconti di sport che valgono il biglietto

Carlos Alcaraz Garfia, 20 anni, 172 incontri ufficiali: 137 vittorie (una media che sfiora l’80% di successi), 35 sconfitte, 12 titoli vinti di cui due Slam. Il primo, 19enne, in America: Casper Ruud liquidato nella finale dell’US Open in 4 set. Il secondo ieri, domenica 16 luglio 2023: la prima volta a Wimbledon del murciano ha chiesto, all’ultimo atto del torneo, un impegno maggiore.

Nole Djokovic, se ce la fai a buttarlo giù, non lo liquidi alla svelta nemmeno a 36 anni: 4 ore e 46’, cinque set di tattica e tecnica, di testa e di braccio, di resistenza e di accelerate. Per quelli che vanno pazzi per le statistiche: sesto tennista, lo spagnolo, a conquistare Londra da numero 1 del ranking al primo tentativo. In bacheca Alcaraz il Mostro si accomoda tra Stan Smith, Bjorn Borg, Pete Sampras, Lleyton Hewitt e Roger Federer.

La prima volta a Umago e il record

Primo titolo ATP a Umago, 18enne: diventa il secondo più giovane di sempre ad aver vinto un torneo ATP. Già, solo il secondo: questo è un record che resiste ancora dalle parti del Giappone, cucito addosso a Klei Nishikori. Ci mise un mese e qualche giorno di meno. Nemmeno il titolo del più giovane a vincere Wimbledon è di Carlos: solo terzo, dopo Boris Becker e Bjon Borg.

L’altro che conta, invece, è di Alcaraz: appena dopo lo Slam a stelle e strisce, il Mostro diventa il più giovane numero 1 nella storia. 19 anni e 4 mesi.

Alcaraz diventa Mostro in fretta

Che gli dici, a uno così. Per dire: ha sbancato a Londra dopo appena 18 match in carriera giocati sull’erba. Una miseria che corrisponde a poco più della metà della striscia vincente di Nole a Wimbledon (34 partite consecutive senza sconfitta). Solo Medvedev a Wimbledon 2021 e Sinner agli ottavi di finale nel 2022 gli hanno fatto scacco matto sul verde.

Mostro diventa Mostro in fretta e lo fa raccogliendo il guanto di sfida di almeno quattro altri Mostri più Mostri di lui. Provateci a mettere piede nel tennis che conta quando – tra sabbia, cemento, erba – rovesciano e smashano quelli come Roger Federer, Rafa Nadal e Novak Djokovic. Andy Murray nel pieno della forma, poi: era Mostro anche lui. Ha attinto qualcosa da ciascuno, Carlos, ma è già diventato merce rara e preziosa: un pezzo unico ai cui piedi s’è chinato l’universo del tennis.

Il paragone irriverente con i Fab 4

Descrivere Alcaraz paragonandolo al Fab 4 che hanno monopolizzato gli ultimi due decenni di storia del tennis mondiale non è scontato. Di sicuro lo spagnolo ha preso qualcosa da ciascuno dei quattro dominatori della scena tennistica del nuovo millennio. E se per Andy Murray si possono tralasciare paragoni che apparirebbero un po’ forzati (comunque sull’erba sapeva il fatto suo: l’Alcaraz visto all’opera nelle ultime quattro settimane sull’erba ha ricordato molto le gesta del britannico nel suo periodo di massimo splendore), con gli altri si possono individuare caratteristiche più evidenti.

Fonte: gettyimages

I tennisti più vincenti degli US Open: quattro vittorie per Robert Wrenn (1893, 1894, 1896, 1897) John McEnroe (1979, 1980, 1981, 1984) e Rafael Nadal (2010, 2013, 2017, 2019)

Cosa ha preso da Nadal

Da Nadal, Carlos ha preso certamente la resilienza e la capacità di combattere in ogni situazione: la testa è fondamentale per riuscire a emergere a così alti livelli e le qualità da guerriero mostrate da Alcaraz nel corso della sua giovane cartiera ne fanno l’erede diretto dello spagnolo, e non soltanto per il fatto di essere suo connazionale (una staffetta niente male).

E la capacità di reggere gli scambi da fondo campo rendono i due molto simili. Come Nadal poi, specie quello degli inizi, il murciano sa di dover migliorare nel servizio: è un altro punto d’incontro, pensando all’andamento dei primi anni delle rispettive carriere.

Lascia andare il braccio, come Federer

Il rovescio di Federer è fuori categoria, ma quando ha la possibilità di mostrare il proprio talento, anche Alcaraz lascia andare il braccio che è un piacere: forse meno bello stilisticamente, ma dannatamente efficace proprio come lo svizzero.

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Wimbledon 2023: Djokovic sorride amaro dopo un punto perso

Djoko studiato nei dettagli

Di Djokovic, invece, Carlos pare aver studiato ogni singola mossa: come muoversi in campo, come rispondere nei turni di servizio dei rivali, come incidere di dritto quando avverte l’odore della presa. Forse dei tre grandi della storia recente, Nole è quello che più gli somiglia. E forse per questo a Wimbledon si è assistito a qualcosa in più di un semplice passaggio di consegne.

Predestinato: ricorda gli inizi di Marquez

Ricorda la storia recente di un altro spagnolo: giovanissimo, come lui; talento da vendere, come Carlos; impatto devastante nel teatro di campioni ancora in grande spolvero, proprio come accaduto ad Alcaraz. Gli esordi del murciano ricordano quelli di Marc Marquez: c’era Valentino, c’erano Jorge Lorenzo, Nicky Hayden e Dani Pedrosa.

E lui niente, tira dritto: 20 anni, 2013, debutto in cavalleria. Al posto di Casey Stoner, fresco di ritiro precoce: un esordio peggiore, in termini di pressioni, non poteva immaginarlo. Invece, lui, niente: si fa tutta la cavalcata da protagonista fino a Valencia, ultimo Gran Premio, dove si gioca il Mondiale. Chiude terzo e porta a casa l’iridato. 20 anni, 8 mesi e una spicciolata di giorni: il più giovane a essersi imposto nella classe regina.

Ecco, è proprio nel parallelo con Marquez, semmai, che torna utile qualche osservazione. Porta dritti verso il futuro prossimo, quello che pare destinato a un predestinato. Era così anche per il pilota: poi, però, Marquez ha infilato la parabola discendente troppo presto. Cosa significa, nel computo del paragone? È un monito, come il cartello warning piazzato preventivamente.

Il difficile comincia adesso: ma Carlos lo sa. Non è solo questione di vittorie e sconfitte. Di tenuta mentale. Incide il corpo, segnano anni e anni di tennis, dipende anche dagli infortuni. Quanti, quali, quelli che si superano e quelli che ci si trascina. Nadal, per intenderci, sarà Nadal per sempre: ma a che prezzo?

Ieri, l’inizio del 2022, l’avanti Cristo

È attrezzato anche per qualche miracolo, avrà modo di stupire ancora. E ancora. Ha le spalle già larghissime, ha i bicipiti di marmo. A tal proposito: la storia di Carlos Alcaraz potrebbe essere raccontata in cento modi e ancora cento. Può partire da oggi, da ieri.

Può partire dal 2018 con gli esordi in ITF o dall’anno dopo, quando fa la prima apparizione in un torneo ATP. Può iniziare con Roger Federer, fonte di ispirazione primaria del giovane Carlos, ma anche con Juan Carlos Ferrero, che nel 2015 prende in carico il talento di un quindicenne parecchio dotato e lo fa sbocciare. Giorno dopo giorno.

Invece, per come la vedo, il corso evolutivo di una narrazione che non vede ancora orizzonte deve cominciare negli otto mesi che hanno chiuso il 2021 per accompagnare verso l’Australian Open del 2022. Il che equivale a farla partire da molto, molto più lontano. Dalla notte dei secoli che stava a cavallo tra l’avanti Cristo e il dopo Cristo. Non con Federer né con Ferrero. Semmai, con Publio Ovidio Nasone. Le Metamorfosi, la mitologia: da quando il Chaos (lo stato primordiale di esistenza da cui emersero gli dei) porta al catasterismo, il passaggio in cui un eroe si tramuta in astro.

Il chaos di Carlos

Il chaos di Carlos è una metamorfosi soprattutto fisica. Devastante. Il talento era già cristallino ma anche su quello, coach Ferrero, lo ha instradato ancora di più. Lo spagnolo sta schiscio per otto mesi circa, poi ricompare. È l’Australian Open del 2022: Alcaraz sfida Tabilo in canotta. Non è più lo scricciolo di prima, è diventato un adone.

Lo strapotere muscolare dello spagnolo, in quella circostanza, catturò le attenzioni immediatamente: è da lì che cominciano, inesorabili, a circolare i paragoni con Nadal. Non perché lo ricordasse nel gioco – sebbene punti di incontro ce ne fossero già – ma per quel fisico scultoreo che, a colpo d’occhio, veniva da sovrapporli. È stata una crescita muscolare studiata a tavolino: un incremento dovuto a una dieta mirata.

Alberto Lledò e un nuovo approccio

Lo aveva chiaramente detto il suo preparatore atletico, Alberto Lledò, a Puntodebreak: mangiava molto poco, Carlos, rispetto alle necessità di un atleta. Lo hanno portato verso un’alimentazione più curata: spariscono i cibi elaborati per fare posto a pasti più completi:

Era fondamentale per aggiungere peso e massa muscolare. Uno come lui ha bisogno di glicogeno per l’energia, di carboidrati, in parte di grassi e poi di proteine per il recupero e per generare massa.

È sempre Lledò a chiarire che

la velocità è un riflesso della forza, che si manifesta così e con prestazioni elevate. Cerchiamo di migliorare la resistenza in prospettiva Slam, quando si gioca al meglio dei cinque set. Carlos ha un deficit di massa grassa, che è importante anche per lo sviluppo ormonale e per la sua crescita. Dei chili che aggiunge, metà possono essere muscoli e l’altra grasso. Quest’ultimo è stato spesso poco considerato, ma è più importante di quanto si pensi. Grazie ad alimentazione, riposo e lavoro, Alcaraz ha ottenuto un corpo ideale.

Così Carlos diventa Alcaraz, il Mostro, numero 1 ATP, 20enne con 172 incontri ufficiali: 137 vittorie, 35 sconfitte, 12 titoli vinti di cui due Slam. E un futuro che sta lì solo per dettare legge. Idolo di tantissimi: senza barriere di generazioni, di nazionalità.

Quanto manca uno come Alcaraz allo sport italiano

La verità è che siamo nel bel mezzo di una strana forma di attualità sportiva. In Italia, intendo. Il Paese è competitivo, viviamo di slanci individuali e collettivi dei quali diventiamo partecipi. Lo sport ci restituisce soddisfazioni trasversali: abbiamo scoperto l’atletica leggera; gioiamo per i successi paralimpici, del volley e dei bimbi del calcio; seguiamo le imprese dei veterani e della meglio gioventù.

Arriviamo a giocarci le finali: un sacco di finali, quest’anno poi. Alcune le vinciamo, altre le perdiamo. C’è fermento, insomma. C’è Jannik Sinner, c’è Matteo Berrettini e ci sono i Lorenzo: Sonego e Musetti. C’è Pecco Bagnaia: forse il più indiziato a segnare un’epoca. Ci sono, ma non ancora abbastanza.

In alcune discipline si dominava e siamo diventati invisibili e abbiamo messo in pattumiera le proverbiali tradizioni. Prendi il ciclismo: sette italiani al Tour – la miseria di sette – a sbatterci sul muso che su quei tempi gloriosi si sono addensati nuvoloni minacciosi non appena Vincenzo Nibali ha detto basta. Prendi la Ferrari: troppa sofferenza che pare irreversibile. Lo stato di salute generale, in ambito agonistico e professionistico, è comunque buono. Ma, diciamoci la verità, uno come Alcaraz, oggi, da qualunque angolazione ti guardi, l’Italia non ce l’ha. E lo aspetta a braccia aperte.

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