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Claudio Lippi e la Nazionale: "Perché credo in Roberto Mancini"

Tifoso milanista, appassionato di calcio e storico conduttore di Mai dire Gol, Claudio Lippi narra l'amore di suo fratello per il Milan. E su chi punt

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In un’Italia e in una Milano da ricostruire, la connotazione calcistica acquistava un senso in più: erano anni in cui c’era da ricostruire un Paese, riprendere le redini dell’esistenza interrotta dalla Guerra e ricompattare quell’identità frammentata dalla prova estenuante e dolorosa del conflitto mondiale. La grande Milano, con le sue fabbriche e le sue industrie e l’edificazione di una nuova identità, si andava definendo in un perimetro anche calcistico più netto, dal carattere di classe appena accennato alla fondazione delle più note società meneghine: Inter e Milan, in una dialettica, però, romantica.

In quella Milano è cresciuto il tifo, l’amore per il calcio di Claudio Lippi (classe 1945), che ci confida in un’intervista intensa, densa di legati e affetti. Personaggio eclettico e poliedrico della storia della musica e della televisione italiana, il suo credo calcistico è quello di un ragazzino cresciuto nelle freschezza di quei facili entusiasmi. Le ragioni sono intime e definiscono il legame con suo fratello. “Fece un provino al Milan e da allora ero e sono milanista”. Come non ha mai celato le ragioni di scelte quasi controverse o la volontà anche di entusiasmarsi davanti al suo calciatore più apprezzato, amato, così distante dallo stile ostentato e sfacciato di alcuni miti del calcio contemporaneo. “Il mio mito? Gianni Rivera“, afferma senza incertezze, da milanista e da uomo. E così palesa la stima e la speranza per quest’Italia ricostruita dalle fondamenta che si appresta ad affrontare Euro 2020. “Roberto Mancini è un vero ct, un fratello maggiore”, lo definisce Lippi che guarda il calcio da spettatore partecipe e divertito, come negli anni della Gialappa’s. E anche allora il calcio, come il cibo, ha ricoperto un ruolo salvifico, anche per un personaggio orgogliosamente popolare come lo è ancora adesso, grazie a scelte dettate dal rispetto di quell’ironia che fu di Raimondo Vianello e di Corrado.

Claudio Lippi gode di una trasversalità artistica e sociale che pochi, nella storia della musica e della televisione italiana, possono vantare al pari suo. E’ nato nell’anno della rinascita, in quel 1945 che segnò la fine della guerra e allora, in Italia e a Milano, la fede calcistica identificava e collocava anche a livello sociale: essere milanista o interista denotava l’estrazione sociale.
Si gioisce, si soffre, ma non cambio umore però se perde il Milan. Ho avuto la fortuna di vedere un grande Milan: ha avuto momenti, credo, esaltanti, nella storia del calcio europeo e mondiale e, ultimamente qualche sofferenza, l’ha creata. Quest’anno possiamo essere soddisfatti di quella che, quanto meno, è stata la conquista della possibilità di partecipare alla Champions augurandoci che abbia gli esiti di anni passati. Non ho mai colto questo lato legato a ceti, culture e differenze sociali. Io sono milanista perché lo era mio fratello che era più grande di me.
A scuola convivevo meglio con un compagno di banco che diceva di essere nipote del presidente del Milan, si chiamava Trabattoni, se non sbaglio. Non ho mai fatto ricerche per verificare la fondatezza della sua affermazione. E’ che a furia di sentire parlare del Milan, da parte di mio fratello, sfegatato, che fece un provino per le giovanili del Milan che mi appassionai. Anche lui fece un provino al Milan, ma il medico riscontrò un soffio al cuore e per questo gli fu impedito di fare una carriera agonistica. Aveva fatto questo provino al Milan, insomma, e gli rimase questa passione. Tornando alla sua domanda, non ho avuto memoria storica di questa differenza. Vivo dal 1972 a Roma e credo, invece, di vedere più differenze sociali tra romanisti e laziali. Non mi sono mai reso conto davvero delle differenze tra Milan e Inter, ci siamo sempre chiamati cugini anche se abbiamo vissuto dei derby accesi, ho vissuto il periodo più importante della squadra, ho conosciuto alcuni dei calciatori: Bruno Mora, Gianni Rivera…l’ho vissuta più come esperienza di conoscere un altro mondo tanto diverso da quello di oggi, il sistema e il mondo del calcio da quando ho iniziato a seguire. Oggi leggevo della separazione non so quanto consensuale di Conte dall’Inter. Un allenatore che vince uno scudetto così, in maniera importante che ha detronizzato la Juventus non credevo potesse portare addirittura una separazione per motivi economici, per quanto leggo. Non sono allenatore, ma sono uno spettatore che guarda il gioco del calcio: mi fa riflettere, in questo periodo storico, che tutti identifichiamo con il Covid 19, il risvolto in un campionato frazionato, sospeso, ripreso inteso come unicità di spettacolo. Questa continua ansia, anche sui diritti, per giocare il venerdì, il sabato, la domenica… Io sono rimasto a “Tutto calcio era tutto il calcio minuto per minuto”.

A quale campione del Milan è più legato emotivamente?
Purtroppo sa di risposta banale, perché soprattutto l’ho vissuto in un tempo in cui i campioni c’erano ma non erano così numerosi e in Italia, poi, abbiamo raccolto da Maradona a Ronaldo, con un maggiore mercato oggi all’apertura ai confini. Ai tempi miei, l’Oriundo era un fenomeno e ne sono arrivati assolutamente incapaci di dimostrarsi tali. Il mio mito rimane Gianni Rivera, perché riconoscevo una forma d’arte nel suo modo di giocare, l’ispirazione che aveva nel distribuire il gioco, la sua classe, la compostezza, l’educazione, il modo di vivere. Credo che fosse molto vicino a quello che rappresentava la completezza della persona, prima ancora dello sportivo, del calciatore. Così come ricordo co vero affetto, come un parente Nereo Rocco, anche. E dall’altra parte, giornalisticamente, come dimenticare i commenti di Gianni Brera o Beppe Viola, che era un vero scrittore. Chi ha vissuto certe epoche non ha solo il rimpianto di tempi diversi: la società era più facile, economicamente c’era più tranquillità e purtroppo si è costretti a fare dei paragoni che sembrano solo romantici. D’altronde il senso dell’agonismo e il rispetto dell’avversario, oggi, io lo vedo un po’ meno.

In questa epoca pandemica, per quanto riguarda le sue aspettative relative alla Nazionale del ct Roberto Mancini e sulle individualità su chi punterebbe in questo atteso Euro 2020?
Io punterei su Roberto Mancini. Intanto in tanti settori si parla di giovani, si riconosce che sono il futuro di un Paese ma mi sembra che di iniziative sostanziali non ce ne siano molte. Almeno Mancini, nell’ambito del calcio e della Nazionale, ha fatto molti esperimenti, ha messo molti giovani e credo che sia la formula migliore già adottata in altri Paesi è stata già sperimentata: ovvero di diventare talent per la formazione di una Nazionale che può contare su sicurezze di esperienza ma che intorno fa da chioccia a talenti che si sono rivelati tali. Sarebbe non onesto citarne solo alcuni, sono stati tanti. Se sembra che se la logica di una Nazionale sia di un gruppo omogeneo, di gruppi ben precisi e la volontà di diventare squadra. E ritengo che lo si deve al ct. Mancini è un vero ct, un po’ fratello maggiore. Molti calciatori seguono la strada della panchina, ma credo che Roberto non ha dimenticato di essere stato calciatore. Sa entrare nello stato d’animo di un calciatore che è poi un uomo, un ragazzo, come gli altri. Io punto molto su Mancini, perché ha fatto sì che una squadra diventasse davvero squadra. Ammiro moltissimo Allegri, che non fu trattato al meglio al Milan. Ma soprattutto ammiro Cesare Prandelli, che lasciò la Roma per assistere sua moglie. ha vissuto momenti di vita che lo hanno distratto per stare accanto a sua moglie. Io credo molto nella componente umana. Mi piacerebbe che prima di tutto un calciatore, un allenatore è una persona. Ripongo molta fiducia in Mancini e ci scommetterei anche che porterà avanti la nostra Nazionale.

Poi ha intrapreso una carriera artistica in crescendo che le ha donato soddisfazioni e l’ha condotta anche a intraprendere un percorso ambizioso con suo fratello. E dopo anni di indubbio successo, è arrivato il tempo della televisione.
Erano gli anni migliori della discografia e talmente migliori che mi sono ritrovato come un agnello in un branco di lupi e non sono riuscito a raggiungere un traguardo che mi ero prefissato anche perché ero stato decisamente frainteso. Il marchio all’epoca era Disco azzurro, il gruppo era composto da me come solista e un gruppo con Massimo Boldi alla batteria e alle tastiere suo fratello Fabio e tutto l’azzurro fu interpretato come una nostalgia di tempi passati. Dove si privilegiava il repertorio italiano, brani in giro per il mondo, e fui accusato di ricordare una certa destra storica. Per me, invece, era l’azzurro della Nazionale, ben oltre la polemica.

La sua carriera è stata intensa, a tratti complicata perché no. E ha fatto anche scelte difficili, ma il calcio ha avuto nel suo caso quasi un potere salvifico con Mai dire gol. Un cast incredibile: la Gialappa’s, Simona Ventura, lei. 
Ho vissuto due anni in cui mi sono divertito tanto quanto l’ho visto da spettatore. Mi chiedevo: “Possibile che io sia qui in studio a fare quello che ho visto fare a Gene Gnocchi, a Teo Teocoli?”. E’ il programma che mi ha sdoganato la dote dell’ironia e i ragazzi della Gialappa’s sono tre geni, sono ancora tre idoli che guardo e che ascolto con ammirazione. Il genere che hanno lanciato è andato nel momento di maggior rottura. Il calcio è una religione che ha dei sacri crismi, che hanno saputo deritualizzare e dissacrare: hanno fatto le interviste impossibili, montato gli svarioni, hanno inventato un linguaggio che nel mondo del pallone ha rotto gli schemi. Soprattutto nel calcio hanno inventato un linguaggio che nel calcio sembrava colpevole di blasfemia pura. Chi ha il coraggio di esporsi in questo modo è sempre meritevole di attenzione, a mio avviso. E quindi inconsciamente mi è rimasto questa sensazione di essere orfano di una comicità come quella della Gialappa’s che ritrovo in altri momenti. Ci sono ancora loro, ma li sento commentare Le Iene. Con il mai dire hanno frequentato ogni genere. E hanno frequentato tutti gli ambienti della comunicazione. Sono cresciuti anche loro, ma hanno mantenuti tutti la loro identità.

Il calcio, nella sua carriera, ha avuto un potere salvifico.
Per quanto mi riguarda, ha cambiato alcune certezze, ha certificato l’ironia poi è stato difficile portare in ambito spettacolare diverso che non avesse avuto il calcio come protagonista. Sono stato innamorato di Raimondo Vianello, ne ho bevuto la classe, la sottilissima ironia. Esco con la scuola, ma con grandissima umiltà in parte erede, di Corrado che è un altro personaggio maestro di ironia da avermi convinto che a volte uno sguardo dice molto di più di mille parole. Se ricorda il Corrado sullo sgabello durante “La Corrida” come guardava i concorrenti, senza averli mai offesi, con lo sguardo perplesso, con il quale parlava. Aveva questa capacità di rientrare magari sul concorrente che aveva ricevuto sberleffi, fischi e dire: “Lei è troppo avanti, non l’hanno capita”. Che è di una finezza, di una sagacia, di una capacità inarrivabile nel superare quel momento di imbarazzo.

Volendo parlare di lei, oltre che del maestro Corrado, potremmo parlare anche de “Il pranzo è servito”
Leggo che verrà ripreso da Flavio Insinna, a cui auguro tutto il meglio, guardando a questa edizione con un pizzico di ricordi, di un’altra esperienza felice con Corrado che mi passò il testimone quando era ancora vivo e assolutamente attivo. Spero di averne ancora da dire e di provocare un sorriso, con l’ironia che di questi tempi di sorrisi ne offre ben poco. Non so con questo Covid se ne usciremo migliori. Per molti ha rappresentato una tragedia umana ed economica, non va dimenticato.

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